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all'inseguimento di Uffizi da mangiare 4: Jacopo Chimenti e gnocchetti di formaggio in brodo di pera

Quarto appuntamento con Inseguendo l'arte da mangiare, il mio personale percorso per osservare il cibo nella storia attraverso gli occhi di artisti d'epoca,

che ho intrapreso seguendo, tappa per tappa, Uffizi da mangiare nella loro meravigliosa idea di abbinare ogni settimana il piatto di un grande chef ad un dipinto famoso della collezione degli Uffizi. 

L'autore del dipinto di oggi è una nostra conoscenza: si tratta di quello stesso Jacopo Chimenti, fiorentino, che avevamo incontrato al nostro secondo appuntamento. I dubbi che avevo avuto allora si sono sciolti, perchè della coppia di sue raffigurazioni di Dispensa esposte agli Uffizi ritroviamo qui quella "con botte": risolto il mistero!

L'opera è culinariamente affidata alle sapienti mani della chef Valeria Piccini, che ispirata dai temi del dipinto prepara un raffinato germano al cavolo nero e scalogni con succo di more fermentate e il suo crostino. I suoi ingredienti sono un misto di dolce e salato, come nella gastronomia rinascimentale: germani, tartufo, capperi, succo e buccia d'arancia, filetti di acciughe, more selvatiche... un'apoteosi di aromi e consistenze di cui si può sapere tutto solo gustandosi il suo video

Jacopo Chimenti abbiamo già visto essere un gran goloso, di conseguenza era probabilmente attratto anche da tutte le lavorazioni che rendevano il cibo più appetibile e gustoso. Entrano quindi in gioco, simbolicamente, in queste sue opere ambientate in dispensa, non solo la raffigurazione del cibo ma anche quella delle abilità umane e l'importanza del tempo, entrambe forme di cura nella trasformazione degli ingredienti, ed anche l'idea seicentesca di abbondanza, immortalata nel suo divenire.

Lo storico dell'arte Alberto Veca descrive le dispense da lui ritratte come differenti dalle classiche nature morte ambientate nei mercati o sulle tavole imbandite: Chimenti dispone il cibo al confine tra il suo aspetto naturale e quello pronto da servire, in quello stadio intermedio in cui frollature, stagionature, maturazioni e conservazioni lo rendono finalmente "consumabile" e lo trasformano da materia prima in alimento. 

Incredibilmente, forse affascinate dallo stessa sensazione di profondità simbolica di queste "lavorazioni da dispensa" effettuate dal tempo, tra tutti i soggetti ritratti nel dipinto è il formaggio, raffigurato sia fresco che stagionato, quello che ha colpito sa me che Eleonora, la deliziosa compagna di viaggio che mi cammina a fianco in questo viaggio grazie ai suoi disegni.
Ok: cosa rappresentava il formaggio nel '600? Parlare di latticini era, per i testi culinari dell'epoca, decisamente inusuale, essendo considerato il formaggio un cibo rustico, di cui si nutrivano i contadini e che si utilizzava nelle cucine nobili come ingrediente di altre preparazioni ma non certo come portata principale, anche se talvolta figurava, insieme alla frutta, in apertura o in chiusura di pasto. 

Per approfondire il tema dei formaggi mi vado a leggere uno dei pochissimi testi italiani di allora che li citano: è il quarto dei sette libri che compongono il trattato di Pratica e scalcaria del lucchese Antonio Frugoli, stampato prima nel 1631 e poi, quella che interessa a noi, nella seconda edizione del 1638, dove è stato riorganizzato proprio il libro che tratta di latticini, condimenti, aromi e legumi.

Frugoli descrive nel suo trattato diversi formaggi, di cui parecchi toscani, ma non cadiamo nell'errore di considerarla consapevolezza di tipicità: se il popolino aveva pasti monotoni basati su poche risorse sempre uguali, prevalentemente cerali in forma di polente, pani e minestre, sulle tavole dei benestanti i prodotti più apprezzati erano quelli di provenienza lontana, e per questo più rari e costosi.

Tra i formaggi, dunque, Frugoli nomina più spesso quelli toscani ma senza particolare orgoglio, solo perchè sono quelli che da toscano meglio conosce: poiché non erano ancora considerati delle prelibatezze degne di importazione o commercio, in ogni zona si dava per scontato di utilizzare in cucina ciò che era sotto mano. Inoltre il consumo di latticini era all'epoca abbondante solo in quelle aree, tipo l'alta montagna, che per clima o per terreno non potevano dedicarsi alla coltivazione di cereali, e che per le stesse ragioni non erano quindi zone di scambi commerciali interessanti.
L'ispirazione della mia ricetta di oggi è ricavata proprio da lì, da un brano del quarto libro del V capitolo, in cui l'autore analizza:

Gioncata, latte appreso e ricotta, e loro qualità e cucina.
[...]si poneranno erbe di più dentro in detta ricotta e si faranno sorte di raviuoli, con la spoglia [sfoglia] e senza spoglia ancora, con uova, zuccaro e formaggio grattato overo fresco e pesto insieme dentro, si serviranno caldi con formaggio grattato, zuccaro e cannella sopra, e saranno buoni per copritura di pelati [selvaggina di pelo] alessi, dopo cotti in buon brodo di carne, e si serviranno come sopra.[...]

Decido per i raviuoli senza spoglia, ovvero degli gnocchetti di solo ripieno, quelli che in Toscana, se a ricotta, formaggio e uova si aggiungono gli spinaci, sono detti gnudi. E, a proposito di cucina "locale", non andiamo tanto lontano da quella Firenze del 1624 in cui era ambientato il dipinto di Chimenti.

Secondo i consigli di Fregoli, questi gnocchetti andrebbero lessati in un brodo di carne, che ai tempi si aromatizzava di solito con pepe, cannella, chiodi di garofano e salvia, insaporendolo non con il sale ma con pezzetti di carne salata. Però, come abbiamo visto qui ma anche nelle tappe precedenti di questo viaggio, la distinzione tra dolce e salato nel '600 ancora non esisteva. Osserva infatti Benporat a proposito dei banchetti proposti nel 1570 da Bartolomeo Scappi nella sua Opera :

"Non ci meravigli il fatto di trovare accostati piatti indifferentemente a base di verdure e di frutta poiché indistintamente tutti contenevano abbondanti dosi di spezie e di zucchero. 
Mentre le minestre di verdure prevedono spesso l'aggiunta di pesci, mandorle, erbe varie e talvolta vengono rese più dense per comporre i ripieno di torte e pasticci, le zuppe di frutta assomigliano piuttosto alla nostra frutta cotta versata sopra fette di pane abbrustolito posto sul fondo del piatto."

In effetti avevo già preparato, nella ricostruzione storica di un pranzo trecentesco, delle pere in salsa di frutta e verdura... E mi viene la tentazione di raffinare l'abbinamento tra formaggio zucchero e spezie, a cui sembra siamo costretti dalla storia, attraverso proprio l'uso di frutta, di cui la pera appoggiata sul tavolo di Chimenti (e che si intravede anche nel disegno si Eleonora) è un'ottimo spunto, anche oggi assolutamente gradita in abbinamento al formaggio, 

Il brodo per cuocere gli gnocchetti diventa, quindi di croste di formaggio stagionato (allora erano pecorino o granone lodigiano, l'antenato degli attuali grana padano e parmigiano reggiano), pere e magari anche una rapa bianca, come quella che spunta da sotto il cavolfiore di Chimenti. Così, in fin dei conti, l'opzione di servirli spolverati di cacio grattugiato, zucchero e cannella rimane solo l'ultimo, impercettibile, tocco per dei commensali veramente curiosi.
RAVIUOLI DI CACIO IN BRODO DI PERA
per 4 persone:
200 g ricotta
50 g di grana grattugiato
40 g circa di farina
1 uovo
1 cucchiaio di erbe tritate, qui prezzemolo, timo e maggiorana
1/2 cucchiaino di zucchero di canna integrale (o muscovado)
noce moscata
pepe nero al mulinello
sale

per i brodi:
60 g di croste secche di grana, con attaccata un po' di polpa
1 pera bio, qui abate
2 ramettI di timo
1 foglia di alloro        
10 grani di pepe nero        
zucchero di canna integrale
sale

per condire:
2 cucchiai di grana grattugiato
1/4 di cucchiaino di zucchero di canna integrale
1/4 di cucchiaino di pepe nero, appena macinato
1/8 di cucchiaino di cannella in polvere

Per il brodo sobbollire per mezz'ora in 800 ml di acqua le croste di grana, prima ben grattate dalla parte esterna, la pera tagliata in quarti, detorsolata ma con la buccia, gli aromi, una presina di zucchero e un pizzico di sale. 

Spegnere e filtrare questo primo brodo, che si userà per servire, e tenerlo in caldo. Tagliare a fettine due quarti di pera e tenere da parte. Rimettere le croste, le erbe e le altre pere nella pentola, aggiungere 500 ml di acqua, un pizzico di sale e di zucchero e portare a bollore, sobbollendo piano e coperto fino a che l'impasto degli gnocchi è pronto.
Per gli gnocchi setacciare la ricotta, mescolarla con uovo, erbe, sale e zucchero ed unire poi poca farina per volta, quanta ne serve per ottenere un composto umido ma abbastanza compatto. Qui ne sono servite 2 cucchiaiate, circa 40g. Profumare infine con una bella grattata di noce moscata e di pepe. 
Con due cucchiaini formare delle palline di impasto e calarle nel "secondo brodo" sobbollente, cuocendo gli gnocchetti a fuoco medio per un paio di minuti da che sono venuti a galla e scolandoli poi a mano a mano con una schiumarola su un vassoio caldo con un velo di brodo sul fondo. 

Dividere nelle fondine individuali le fettine di pera e 5 o 6 gnocchetti a testa, versarvi sopra una mestolata del primo brodo bollente e servire fumante, con a parte una ciotolina dove si saranno miscelati grana grattugiato, pepe, zucchero e cannella. 
  • rivoli affluenti:
  • Benporat Claudio, Storia della gastronomia italiana, 1990, Mursia (il brano citato è a pag. 99)
  • Faccioli Emilio (cura), L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo, Einaudi Editore, 1987 e 1992, ISBN 88-06-59880-5 (da cui è tratta la citazione di Frugoli, a pag. 608)
  • Morineau Michel, "Crescere senza sapere perchè: strutture di produzione, demografia e razioni alimentari", in Flandrin Jean-Louis, Montanari Massimo (cura), Storia dell’alimentazione, Editori Laterza, 1996, ISBN 88-420-5347-3
  • Veca Alberto, "Immagini del cibo nell'arte moderna" in Flandrin, Montanari, idem
  • l'immagine del dipinto di Chimenti è presa qui
  • la foto della chef Piccini è presa qui

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