Ho conosciuto un signore giapponese con gli occhi brillanti di un ragazzino. Ho avuto l'onore di leggere i suoi libri e di ascoltare dal vivo la sua storia e così ho capito quale entusiasmo ha alimentato per tanti anni quegli occhi vivaci e curiosi.
Shiro è un ragazzino già appassionato di gastronomia quando in Giappone lavora in diversi ristoranti e si iscrive alla famosa scuola di cucina giapponese del professor Sizuo Tsuji, un mito della cultura gastronomica nel suo Paese. L'allievo brilla talmente che il maestro, sapiente estimatore della cucina italiana, gli propone una sfida: trasferirsi in Italia e cercare di appassionare alla cucina giapponese una popolazione profondamente legata alle proprie, fortissime tradizioni nazionali.
Detto fatto: il giovane Shiro nel 1972, a ventisei anni, approda a a Roma, dove l'unico ristorante giapponese presente allora in Italia cerca un cuoco esperto in sushi. Il proprietario è entusiasta di lui, peccato che iniseme debbano affrontare il problema delle materie prime giapponesi, in particolare il riso, allora irreperibili in Italia e praticamente insostituibili con prodotti locali.
Il giovane chef si dedica con pazienza ed acume a cercare delle soluzioni effcaci e negli anni riesce addirittura a realizzare, insieme con il titolare del ristorante, una selezione di riso giapponese adatta alla coltura nel Vercellese ed una coltivazione di daikon ed altri vegetali nippnici in Germania. Poi torna in Giappone, lavora in aziende che producono i più tipici ingredienti giapponesi come tofu e miso, impara il funzionamento dei macchinari specializzati e ne importa alcuni dal Giappone in Italia, impiantando con essi una fabbrica fuori Roma.
La cucina giapponese a quel punto è pronta ad espandersi in Italia, così nel '77 Shiro, senza parlare quasi una parola di Italiano, si trasferisce a Milano, dove inizialmente apre un negozio di prodotti giapponesi e di cibo da asporto e poi, finalmente ottenute le opportune licenze, nel 1989 da vita una vera e propria sushi-ya, cioè un sushi bar, il primo in assoluto in Italia, che battezza con un nome dalla storia singolare...
Quando nel lontano 1583 i missionari Gesuiti riuscirono a convertire alcuni nobili feudatari giapponesi, questi mandarono una delegazione a far visita al papa Gregorio XIII. La leggenda narra che, una volta sbarcati dalle navi, i rappresentanti di Cipangu (come Marco Polo aveva denominato il Giappone di allora) si fermarono in piazza del Popolo per cambiarsi d'abito, allestire un maestoso corteo ed arrivare al cospetto del Papa in pompa magna.
Questo episodio storico colpisce molto Shiro, che crede profondamente ai legami tra Giappone ed Italia ed in omaggio al primo incontro tra i due Paesi decide di chiamare il suo locale Poporoya. Il nome è composto da una parola italiana, "popolo", pronunciata con il vizietto giapponese di sostituire la "erre" al posto della "elle", associata ad una giapponese, ya, "casa". La storica piazza romana legata al concetto stesso di accoglienza ed ospitalità nipponica... la traduzione finale di "casa del popolo" non rende esattamente la pienezza del significato di questo nome!
Nome che, tra l'altro, vuole anche sottolineare la scelta dell'impostazione del locale. Esistono infatti in Giappone, così come in Italia, molti livelli diversi di ristorazione: mentre i locali giapponesi in Italia tendono a proporre cucina elegante per una fascia medio-alta di clientela, Shiro preferisce rivolgersi alle persone comuni, che pranzano fuori casa per necessità ed hanno interesse in un prodotto di qualità dal sapore distintivo ma servito velocemente ed a costi non proibitivi.
Memore delle sue esperienze lavorative nel Paese natale, in cui ebbe occasione di lavorare anche in locande di campagna, ne riporta la genuinità nella sua sushi-ya italiana, mirando ad un'armonia di aromi più diretta ed immediata rispetto alla media dei delicatissimi sapori dei ristoranti eleganti.
Secondo il suo ragionamento, chi lavora ha bisogno di sali minerali, dunque il suo riso è leggermente più saporito della media; dopo una mattinata impegnativa si è affamati e si gradiscono porzioni un pochino più abbondanti, quindi le sue palline di riso non sono minute e le fettine di pesce del sashimi sono decisamente spesse...
Come bevanda serve hojicha, un tè tostato con bassissimo contenuto di caffeina che tradizionalmente si usa in Giappone durante il pranzo ed al termine della cena. Il classico tè verde sencha non è invece adatto ad un pranzo "rustico" e comunque non è sempre disponibile perchè, per evitare un gusto troppo amaro, viene preparato in dosi limitate e con una lentissima infusione a freddo che dura notti intere. Altro che polverine istantanee...
Daltronde nulla è casuale nella cucina di Shiro, nonostante il suo locale sia piccolo ed arredato con molta semplicità, come giustamente si addice ad una trattoria popolare. La sua passione per la cucina e la sua conoscenza della vastissima tradizione giapponese gli permettono di attingere in ogni stagione a varianti sempre diverse, agli occhi di un occidentale perfino più sorprendenti di quelle di molti ristoranti che fanno cucina giapponese "di ricerca"...
Le pareti del locale raccontano ad uno spettatore attento la storia e la mentalità di Shiro: il ristorante, ad esempio, non è molto grande proprio perchè il numero dei coperti deve essere tarato sul lavoro dello chef, che non potrebbe servire con soddisfazione più di una dozzina di persone tutto da solo. La vicinanza dei tavolini favorisce la conoscenza, perchè secondo Shiro a pranzo è bello distrarsi da lavoro e chiacchierare simpaticamente con i vicini... tanto è vero che diversi amori sono sbocciati nel locale! Lui racconta con l'orgoglio del bravo oste di coppie conosciutesi anni fa proprio così, che si sono poi sposate e continuano a frequentare il ristorante con i figli...
Ogni oggetto presente nel suo locale è per Shiro un ricordo: il noren (la tenda che incornicia il bancone), il manuale da lui compilato per i primi clienti italiani inesperti di cibo giapponese, la foto del meraviglioso e preziosissimo tonno che campeggia sopra gli scaffali del negozio, le decine di diplomi ed attestati appesi alle pareti, tra cui persino l'autorizzazione alla preparazione del celeberrimo pesce fugu, nonostante il Italia non sia disponibile.
E poi la tavoletta di legno appesa all'ingresso della sala che riporta l'appartenenza all'Associazione Giapponese Cuochi di Sushi (di cui è l'unico iscritto a vivere in Italia), l'esposizione di libri di cui Shiro è autore, la preziosa targa laccata di buon augurio ricevuta in dono dal suo ex titolare di Roma quando decise di mettersi in proprio... Non si finirebbe più di sfogliare questo album dei ricordi per ascoltare la favola nascosto in ogni oggetto.
Entare nella sushi-ya di Shiro significa leggere la storia di una vita silenziosa e strabiliante, insospettabile dietro il sorriso di quel signore sempre indaffarato dietro il bancone, testa china ed occhi brillanti. La migliore testimonianza dell'evidente amore del suo amore nei confronti del suo lavoro sta nel soprannome stesso con cui ha fatto breccia nel cuore di chi ha avuto l'onore di conoscerlo... E già, perchè lui in realtà si chiama il un altro modo: Minoru Hirasawa!
'Shiro' è il nome d'arte che ha scelto quando è arrivato in Italia per non mettere in imbarazzo i non Giapponesi con un nome complicato da pronunciare. In Giapponese shiro significa 'bianco', da un antico poema come la luce dell'angelo che illumina i sogni del domani... "E come la giacca da cuoco!" aggiunge lui, sorridendo...
In suo omaggio ora non potrei mai permettermi di tentare di replicare del sushi, così ho scelto da uno dei suoi libri un piatto molto più semplice, interpretabile con verdure di stagione, adatto anche ad una presentazione casalinga (o da trattoria...):
Yawatamaki - Involtini giapponesi di manzo ed asparagi
dosi x 4 persone italiane o per 6/8 giapponesi:
400 gr. di manzo tagliato a carpaccio (circa 20 fettine)
40 asparagi verdi abbastanza sottili oppure 20 asparagi grossi di Bassano (*)
4 cucchiai di salsa di soja
1,5 cucchiai di mirin
200 ml. di brodo dashi
1 cucchiaio di zucchero
2 cucchiai di olio di semi
Mondare gli asparagi e cuocerli pochi minuti a vapore, eliminando poi la parte dura del gambo e tagliando il rimanente in due, per ottenrere dei bastoncini lunga circa 10 cm.
Stendere le fettine di carne ben aperte, accostarle se sono strette in modo da raggiungere i 10 cm in larghezza, adagiarci 4 pezzi di asparago verde (2 punte + 2 code) ed arrotolarle formando degli involtini abbastanza sottili.
Levare la carne, scolare l'eventuale olio in eccesso e versare nella padella il dashi; mente si scalda miscelare zucchero e mirin alla soia, quindi versarli nella padella e far ben amalgamare il tutto.
Rimettere la carne nella padella e lasciar sobbollire lentamente nella salsa una decina di minuti, rivoltando bene perchègli involtini si imbevano su tutti i lati, fino a che il fondo si è consumato ed assume una consistenza sciropposa.
Gli involtini si possono servire caldi così come sono, oppure tagliare a larghe rondelle e servire caldi con la loro salsa sopra riso a vapore.
(* Quando gli asparagi non sono di stagione si possono sostituire con dei piccoli porri, sbollentati un paio di minuti in acqua bollente e poi tagliati a bastoncini, oppure con daikon crudo, con zucchine crude o con scorzonera o carote sbollentate 5 minuti in acqua e aceto.)
Shiro è un ragazzino già appassionato di gastronomia quando in Giappone lavora in diversi ristoranti e si iscrive alla famosa scuola di cucina giapponese del professor Sizuo Tsuji, un mito della cultura gastronomica nel suo Paese. L'allievo brilla talmente che il maestro, sapiente estimatore della cucina italiana, gli propone una sfida: trasferirsi in Italia e cercare di appassionare alla cucina giapponese una popolazione profondamente legata alle proprie, fortissime tradizioni nazionali.
Detto fatto: il giovane Shiro nel 1972, a ventisei anni, approda a a Roma, dove l'unico ristorante giapponese presente allora in Italia cerca un cuoco esperto in sushi. Il proprietario è entusiasta di lui, peccato che iniseme debbano affrontare il problema delle materie prime giapponesi, in particolare il riso, allora irreperibili in Italia e praticamente insostituibili con prodotti locali.
Il giovane chef si dedica con pazienza ed acume a cercare delle soluzioni effcaci e negli anni riesce addirittura a realizzare, insieme con il titolare del ristorante, una selezione di riso giapponese adatta alla coltura nel Vercellese ed una coltivazione di daikon ed altri vegetali nippnici in Germania. Poi torna in Giappone, lavora in aziende che producono i più tipici ingredienti giapponesi come tofu e miso, impara il funzionamento dei macchinari specializzati e ne importa alcuni dal Giappone in Italia, impiantando con essi una fabbrica fuori Roma.
La cucina giapponese a quel punto è pronta ad espandersi in Italia, così nel '77 Shiro, senza parlare quasi una parola di Italiano, si trasferisce a Milano, dove inizialmente apre un negozio di prodotti giapponesi e di cibo da asporto e poi, finalmente ottenute le opportune licenze, nel 1989 da vita una vera e propria sushi-ya, cioè un sushi bar, il primo in assoluto in Italia, che battezza con un nome dalla storia singolare...
Quando nel lontano 1583 i missionari Gesuiti riuscirono a convertire alcuni nobili feudatari giapponesi, questi mandarono una delegazione a far visita al papa Gregorio XIII. La leggenda narra che, una volta sbarcati dalle navi, i rappresentanti di Cipangu (come Marco Polo aveva denominato il Giappone di allora) si fermarono in piazza del Popolo per cambiarsi d'abito, allestire un maestoso corteo ed arrivare al cospetto del Papa in pompa magna.
Questo episodio storico colpisce molto Shiro, che crede profondamente ai legami tra Giappone ed Italia ed in omaggio al primo incontro tra i due Paesi decide di chiamare il suo locale Poporoya. Il nome è composto da una parola italiana, "popolo", pronunciata con il vizietto giapponese di sostituire la "erre" al posto della "elle", associata ad una giapponese, ya, "casa". La storica piazza romana legata al concetto stesso di accoglienza ed ospitalità nipponica... la traduzione finale di "casa del popolo" non rende esattamente la pienezza del significato di questo nome!
Nome che, tra l'altro, vuole anche sottolineare la scelta dell'impostazione del locale. Esistono infatti in Giappone, così come in Italia, molti livelli diversi di ristorazione: mentre i locali giapponesi in Italia tendono a proporre cucina elegante per una fascia medio-alta di clientela, Shiro preferisce rivolgersi alle persone comuni, che pranzano fuori casa per necessità ed hanno interesse in un prodotto di qualità dal sapore distintivo ma servito velocemente ed a costi non proibitivi.
Memore delle sue esperienze lavorative nel Paese natale, in cui ebbe occasione di lavorare anche in locande di campagna, ne riporta la genuinità nella sua sushi-ya italiana, mirando ad un'armonia di aromi più diretta ed immediata rispetto alla media dei delicatissimi sapori dei ristoranti eleganti.
Secondo il suo ragionamento, chi lavora ha bisogno di sali minerali, dunque il suo riso è leggermente più saporito della media; dopo una mattinata impegnativa si è affamati e si gradiscono porzioni un pochino più abbondanti, quindi le sue palline di riso non sono minute e le fettine di pesce del sashimi sono decisamente spesse...
Come bevanda serve hojicha, un tè tostato con bassissimo contenuto di caffeina che tradizionalmente si usa in Giappone durante il pranzo ed al termine della cena. Il classico tè verde sencha non è invece adatto ad un pranzo "rustico" e comunque non è sempre disponibile perchè, per evitare un gusto troppo amaro, viene preparato in dosi limitate e con una lentissima infusione a freddo che dura notti intere. Altro che polverine istantanee...
Daltronde nulla è casuale nella cucina di Shiro, nonostante il suo locale sia piccolo ed arredato con molta semplicità, come giustamente si addice ad una trattoria popolare. La sua passione per la cucina e la sua conoscenza della vastissima tradizione giapponese gli permettono di attingere in ogni stagione a varianti sempre diverse, agli occhi di un occidentale perfino più sorprendenti di quelle di molti ristoranti che fanno cucina giapponese "di ricerca"...
Le pareti del locale raccontano ad uno spettatore attento la storia e la mentalità di Shiro: il ristorante, ad esempio, non è molto grande proprio perchè il numero dei coperti deve essere tarato sul lavoro dello chef, che non potrebbe servire con soddisfazione più di una dozzina di persone tutto da solo. La vicinanza dei tavolini favorisce la conoscenza, perchè secondo Shiro a pranzo è bello distrarsi da lavoro e chiacchierare simpaticamente con i vicini... tanto è vero che diversi amori sono sbocciati nel locale! Lui racconta con l'orgoglio del bravo oste di coppie conosciutesi anni fa proprio così, che si sono poi sposate e continuano a frequentare il ristorante con i figli...
Ogni oggetto presente nel suo locale è per Shiro un ricordo: il noren (la tenda che incornicia il bancone), il manuale da lui compilato per i primi clienti italiani inesperti di cibo giapponese, la foto del meraviglioso e preziosissimo tonno che campeggia sopra gli scaffali del negozio, le decine di diplomi ed attestati appesi alle pareti, tra cui persino l'autorizzazione alla preparazione del celeberrimo pesce fugu, nonostante il Italia non sia disponibile.
E poi la tavoletta di legno appesa all'ingresso della sala che riporta l'appartenenza all'Associazione Giapponese Cuochi di Sushi (di cui è l'unico iscritto a vivere in Italia), l'esposizione di libri di cui Shiro è autore, la preziosa targa laccata di buon augurio ricevuta in dono dal suo ex titolare di Roma quando decise di mettersi in proprio... Non si finirebbe più di sfogliare questo album dei ricordi per ascoltare la favola nascosto in ogni oggetto.
Entare nella sushi-ya di Shiro significa leggere la storia di una vita silenziosa e strabiliante, insospettabile dietro il sorriso di quel signore sempre indaffarato dietro il bancone, testa china ed occhi brillanti. La migliore testimonianza dell'evidente amore del suo amore nei confronti del suo lavoro sta nel soprannome stesso con cui ha fatto breccia nel cuore di chi ha avuto l'onore di conoscerlo... E già, perchè lui in realtà si chiama il un altro modo: Minoru Hirasawa!
'Shiro' è il nome d'arte che ha scelto quando è arrivato in Italia per non mettere in imbarazzo i non Giapponesi con un nome complicato da pronunciare. In Giapponese shiro significa 'bianco', da un antico poema come la luce dell'angelo che illumina i sogni del domani... "E come la giacca da cuoco!" aggiunge lui, sorridendo...
(Shiro ritratto dal fotografo Giancarlo Mecarelli, autore del libro City Angels, da cui è tratta la foto)
In suo omaggio ora non potrei mai permettermi di tentare di replicare del sushi, così ho scelto da uno dei suoi libri un piatto molto più semplice, interpretabile con verdure di stagione, adatto anche ad una presentazione casalinga (o da trattoria...):
Yawatamaki - Involtini giapponesi di manzo ed asparagi
dosi x 4 persone italiane o per 6/8 giapponesi:
400 gr. di manzo tagliato a carpaccio (circa 20 fettine)
40 asparagi verdi abbastanza sottili oppure 20 asparagi grossi di Bassano (*)
4 cucchiai di salsa di soja
1,5 cucchiai di mirin
200 ml. di brodo dashi
1 cucchiaio di zucchero
2 cucchiai di olio di semi
Stendere le fettine di carne ben aperte, accostarle se sono strette in modo da raggiungere i 10 cm in larghezza, adagiarci 4 pezzi di asparago verde (2 punte + 2 code) ed arrotolarle formando degli involtini abbastanza sottili.
Scaldare l'olio in un padellino non troppo largo e rosolarci gli involtini dalla parte della giunta, dorandoli poi velocemente su tutti i lati.
Levare la carne, scolare l'eventuale olio in eccesso e versare nella padella il dashi; mente si scalda miscelare zucchero e mirin alla soia, quindi versarli nella padella e far ben amalgamare il tutto.
Rimettere la carne nella padella e lasciar sobbollire lentamente nella salsa una decina di minuti, rivoltando bene perchègli involtini si imbevano su tutti i lati, fino a che il fondo si è consumato ed assume una consistenza sciropposa.
Per una presentazione più giapponese (o da finger food) si lasciano intiepidire gli involtini nella salsa, quindi si pareggiano le estremità, si tagliano in 2 tronchetti con un taglio inclinato e si dispongono in piedi sui piatti individuali; si decorano con un cucchiaino di salsa tiepida per piatto ed qualche filettino di zenzero fresco julienne. Ottimi accompagnati con sakè freddo con un pizzico di sale su una parte dell'orlo del bicchiere.
(* Quando gli asparagi non sono di stagione si possono sostituire con dei piccoli porri, sbollentati un paio di minuti in acqua bollente e poi tagliati a bastoncini, oppure con daikon crudo, con zucchine crude o con scorzonera o carote sbollentate 5 minuti in acqua e aceto.)
- rivoli affluenti:
- Minoru Hirasawa, Graziana Canova Tura, Giappone, Fabbri Ediori
- Minoru Hirasawa, Graziana Canova Tura, Sushi, Fabbri Editori
Amo la cucina giapponese, gli involtini di manzo ed asparagi però non li conoscevo. Provvederò, grazie a te, a colmare questa lacuna quanto prima ;-)
RispondiEliminaAnna Luisa
P.S. complimenti per il tuo blog è bello e molto interessante.
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RispondiEliminaMe gusta. Soprattutto perché, come al solito, questa ricetta ha una bellissima cornice letteraria. Brava.
RispondiElimina@anna luisa: grazie dei complimenti e benvenuta.
RispondiEliminaSi tratta di una ricetta semplice, più da trattoria che da locale alla moda, quindi difficilmente proposta sui menù dei ristoranti giapponesi in Italia. Ma per fortuna la cucina giapponese non è solo sushi e molte cose sono tranquillamente preparabili a casa...
@mariuzza: brava a te che conservi la voglia di curiosare qui dentro nonostante le mie stravaganze!
Prepara prepara, che tra un po' riparte la carovana.Fammi uscire vivo dalle risaie cambogiane.
RispondiEliminaLeggere la storia di persone e culture parallele alla nostra che si intrecciano in un quotidiano che spesso ci sfugge è un ottimo punto di partenza per imparare a guardare gli "altri", qualsivoglia provenienza abbiano. Chi meglio di te lo sa fare in merito ad un mondo orientale visto e stereotipato con troppa faciltà. Anche la ricetta mi piace parecchio :)))
RispondiEliminaGrazie come sempre :))))
Interessante e curiosa la storia. La ricetta ottima, io li ho sempre fatti con i carciofi. Buon martedi'
RispondiEliminaBuoni buoni buoni questi involtini alternativi :-D
RispondiEliminaMerito della cuoca e della ricetta. In attesa di fare una visita al Poporoya non appena approdo a Milano con la giusta tranquillità!
Tschüß
@enrico: hai visto che un accennino a Marcopolonostro me lo sono fatto scappare comunque?!
RispondiElimina@gambetto: be', anche tu in quanto a storie che ci circondano "senza parere" non scherzi affatto... Il tuo racconto sul gourmet-clochard mi sta ancora nel cuore!
@ilaila: non mi sono mai capitate ricette giapponesi con i carciofi, ora che mi ci fai riflettere. Dovrò indagare in merito... Grazie dello spunto!
@stef: a pranzo preparati ad una coda veloce ma corposa, la sera è un poco più tranquillo (ed il riso viene condito in modo più delicato, trattandosi di una tavola più rilassata...)
Ehehehehe...ma quella mia può darsi che sia un jolly in un mazzo di carte normali...tu mia cara (consentimi impunemente il tono più confidenziale) hai solo jolly e certamente talento da vendere indipendentemente dall'argomento che racconti.
RispondiEliminaNon aggiungo nulla altrimenti perdo il divertimento di divagare sempre sulla tua inclinazione orientale :P ehehehehe
apprezzata assai questa storia e questa presentazione. ricorderò.
RispondiEliminaCerto che in quanto a forza di volontà questo chef ha da insegnare proprio a tutti...
RispondiEliminaògambetto: ecco, sì, non esageriamo con i complimenti. Già sono pesante così, se poi mi monto pure la testa...
RispondiElimina@artemisia comina: se continuiamo per questa china finiremo per farci reciprocamente da guida turistica...
@virò: per certi versi alcuni punti della sua storia mi ricordano un po' quella di mio nonno...
... la verità è che curioso proprio per le tue stravaganze...
RispondiElimina:-)
un post molto accurato, manca però l'indirizzo di milano, sì potrei cercarmelo, ma perché non inserirlo in un omaggio così affettuoso?!
RispondiEliminaun gentile saluto!
@mariuzza: vedi come siamo conciate male tra tutte e due, allora...
RispondiElimina@papavero di campo: forse hai ragione, non ci ho proprio pensato... probabilmente perchè l'intenzione era raccontare la persona, più che recensire il ristorante.
Mi rendo conto che in realtà è saltata fuori una via di mezzo, dato che la vita di questo meraviglioso signore è comunque semplicemente inscindibile dal suo lavoro.
Comunque eccoti serviti i recapiti del ristorante/bottega Poporoya: via Eustachi 17, tel. 02.29406797, chiuso la domenica.
Oh finalmente sono riuscita a ritagliarmi un po' di tempo per leggere tutta la storia senza interruzioni!
RispondiEliminaBella storia e bellissima la foto di Mecarelli!
E' sempre un piacere leggerti :-)
Devo confessare che io e la cucina giapponese non abbiamo mai stretto amicizia, a parte poche cose tipo sushi e simili, non è che abbia mai avuto l'opportunità di approfondire di più la cosa. In gran parte questo è dovuto anche al fatto che è una cucina che, per quanto io mi sforzi, non mi attrae particolarmente, credo sia più dovuto ad un fattore estetico che altro. In parole povere non mi viene l'acquolina in bocca davanti a questi piatti.
Nonostante ciò, siccome per giudicare devo prima assaggiare, e siccome non mi piace non sapere, prima o poi in un ristorante giapponese come si deve, un salto ce lo devo fare!
La mia ignoranza in materia è incredibile, e l'unico alimento che conosco bene è il Fugu (ma solo perché è un must negli studi di tossicologia :-D)
Nel frattempo mi faccio una cultura leggendo te ;-)
PS: oh e interessante anche il piatto da te proposto!
@muscaria: hai detto le paroline magiche: "non mi piace non sapere". Anche avessi criticato aspramente tutto e tutti... solo per quella formuletta adorerei il tuo commento a prescindere!
RispondiEliminaI piatti giapponesi in realtà non vengono presentati con l'intento di stimolare l'acquolina in bocca perchè vogliono prima di tutto evidenziare un senso di armonia tra sapori, profumi, forme, colori, consistenze, stagione, luogo, occasione... Da quella sensazione di benessere, armonia ed ammirazione deriva poi il desiderio di "appropriarsi dell'oggetto", come se mangiandolo la sua bellezza divenisse parte di noi.
l'"estetica del sapore" giapponese è un arte precisa e complessa, basata su parametri che a noi occidentali non sono familiari ma che per i nipponici sono oramai degli istinti acquisiti. Tutto è finalizzato a non permettere la distinzione tra "bello" e "buono" perchè nelle intenzioni del cuoco non esistono due concetti separati. La fame ti viene con il cervello ed il cuore ancora prima che con lo stomaco. Ma riprenderò certo l'argomento, perchè ultimamente ho avuto l'occasione di approfondirlo parecchio e ne soro stata totalmente rapita.
@cucina italiana: grazie dell'invito, verrò certo a curiosare anche se non credo di partecipare. Grazie comunque