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un po' di fatti miei in merito ad una teglia di coccio

Sarà un post esteso, diviso in tre parti perché si possa saltare quello che non interessa...


prima parte (troppo lunga, lo so!): personale
Mi piace molto ascoltare. Imparare cose che non conosco è un vizio che mi concedo fin da bambina. Quasi una droga, che cerco da sempre nei libri, nella forma degli oggetti, nei riti del cibo. Che trovo spesso inaspettatamente nascosta dentro le parole delle persone che vogliono dire altro.

La vita al di fuori della rete è durissima, ci fa incontrare problemi pesanti e rapporti interpersonali davvero difficili da gestire. Li si affronta comunque, impiegando tutte le energie. E poi, almeno nel mio caso, si cerca sollievo in nicchie alternative. Tipo un piccolo blog di cucina, sostanzialmente nato per dedicarmi al puro piacere di imparare, senza obblighi di confronto con la complessità del vivere quotidiano.


Vedere replicati in rete i meccanismi tristi dei dialoghi tra sordi in cui incappo ad ogni passo fuori da qui mi amareggia. Nella mia testa continuo a sentire che  il principio base è l'ascolto, non la sfida. Sempre. Nella mia vita personale di sfide non ne ho accettate quasi mai. All'atto pratico a volte la cosa non mi ha fatto comodo ma di contro ho conservato sempre la mia serenità profonda. E' la mia regola di vita base credo: nel confronto c'è solo da imparare.


Anche quando i toni trascendono. Anche quando qualsiasi forma di dialogo viene colta come sfida, pur sapendo perfettamente tutti quanto sia realmente impossibile che uno solo possieda la verità assoluta ed un altro sia nel completo errore. Anche quando non si affrontano argomenti di importanza vitale ma si disquisisce sul materiale di cui è fatto un tegame.


Io sono stata qualche volta in Puglia ma non posso dire di conoscerne profondamente la cultura. Ho assaggiato sul posto in zone diverse vari tipi di tiella (uso questa versione del nome perché è quella dell'amico pugliese che per primo mi ha insegnato anni fa il piatto, insieme alla sua fantastica pizza di patate). Contenevano tutte patate riso e cozze ma erano fatte in modi differenti, cucinate nei tegami più disparati e non ho idea di quale si potesse definire quella "originaria" o la più "tradizionale".


Ma è decisamente tutta ignoranza mia, mi rendo conto, che posso certo dire quale mi è piaciuta di più a gusto personale ma non ho modo di comprendere altro, pur avendo ascoltato con attenzione massaie e appassionati nativi della Puglia. 


Personalmente posso cercare nei libri di storia l'evoluzione della cottura nel coccio al forno o farmi raccontare da un amico pescatore la tradizione delle cozze tarantine, ma non vivo la sapienza domestica di chi ha ereditato dalla nonna la teglia di alluminio perfetta per la tiella o dal padre il trucco per aprire le cozze a crudo senza tagliarsi. Insomma: non sarò mai una perfetta preparatrice di tiella perché la mia conoscenza del piatto rimane purtroppo per gran parte teorica.

Allo stesso modo non saprò mai comprendere se la ricetta della taieddhra proposta da Christian del blog Resistenza Poetica per l'MTC questo mese o quella che ho imparato dal mio amico vent'anni fa siano da considerare varianti di famiglia rispetto alla ricetta di chi ne racconta una versione più canonica o più diffusa. Oppure se ogni variante sul tema, che ne rispetti ovviamente gli ingredienti ed i metodi di cottura, abbia comunque diritto a chiamarsi tiella.


Per come sono fatta io il dibattito innescato dalla tiella non mi arriva come una sfida ma come un confronto; leggendo tutte le versioni imparo da ciascuno dettagli che non conosco: lo spessore differente per le patate che vanno sul fondo o in cima o la giusta altezza da dare allo strato di riso. Alla fine dei conti ottengo semplicemente l'ottimo risultato di migliorare certamente la mia preparazione della tiella. 


Sui dati discordanti invece probabilmente sperimento e poi scelgo quello che a me piace di più. Con la stessa tranquillità ed incoscienza di qualsiasi massaia, intendo, pugliese o meno che sia. E continuo a pensare di aver preparato una tiella pugliese.


Però, come giustamente sostengono un po' tutti senza rendersi conto che stanno dicendo la stessa cosa, se apporto varianti non contemplate da nessun "precedente" (soprattutto quando la variante non è la cozza con il mezzo guscio o meno ma un nuovo ingrediente o una differente tecnica) uso la definizione "tiella" con cautela, così come ho sempre cercato di fare sul blog per i piatti di ogni zona del mondo che non fossero casa mia.

Ma per ascoltare meglio è opportuno mettersi proprio nei panni dell'altro. Mi chiedo dunque cosa sarebbe successo se il tema fosse stato il Dolce Varese, una torta tipica della mia città che già da noi ha due metodi alternativi di preparazione e almeno quattro varianti di ingredienti base. 


Ho provato a frugare in rete e ne ho trovate una serie di interpretazioni "personalizzate", esotiche ed anche improbabili. La reazione alla prima "variante" incontrata è stata: "il Dolce Varese con il cardamomo?! Ma non sa più di Dolce Varese!"

Però ad ascoltare si imparano un sacco di cose... Mi mi sono resa conto, per esempio, che un mare di gente si divertiva a preparare questa torta in casa, anche senza mai essere stata a Varese e senza nemmeno averla davvero assaggiata in vita sua. E che attraverso di essa entrava comunque in contatto con la mia città e le mie tradizioni. E mi è interessato più capire cosa pensano di aver concluso con queste varianti, che non puntualizzare che nella torta varesina originale, in qualsiasi sua declinazione, non ci sono spezie se non a volte un poco di vaniglia.


Probabilmente chi ha usato il cardamomo già lo sapeva, semplicemente non si è preoccupato di infrangere un tabù. Conclusione: non c'è probabilmente nella mia personale "varesinità" sufficiente cultura locale per prendere il cardamomo come una sfida. O forse non vivo la varesinità come un culto ma come un'opportunità di raccontare qualcosa di me a chi è curioso di capire. E chi non è curioso è difficile si metta a provare varianti di cucina...


E' nata in me, invece, la curiosità di provare anche una variazione speziata della mia torta preferita. Che chiamerò immagino "Dolce Varese con cardamomo", sapendo bene di cosa parlo, e a cui aggiungerò delle osservazioni sulle differenze finali di sapore rispetto alla ricetta "classica" di partenza.


Come ho già detto, ripetere con cura una ricetta tradizionale è una forma di conoscenza e anche di rispetto storico e geografico della sua identità. Che poi sia possibile contaminarla di spezie, per la logica intrinseca di ogni piatto che è sempre la somma di tante storie diverse, è un altrettanto degna forma di rispetto.

Se decidessi di cucinare una teglia di patate riso e cozze in variante speziata non credo la chiamerei "Tiella pugliese al cardamomo" semplicemente perché io non ne so abbastanza. Credo userei

"Teglia quasi pugliese di patate riso e cozze al cardamomo", "Simil-tiella al cardamomo" o giù di lì.

Ma questo è un mio personale pudore: semplicemente a parere mio  il nome della ricetta iniziale compare come citazione, come ispirazione, come una delle componenti della sua storia, non più come rappresentazione in toto del nuovo piatto. E questo mio sentire non credo vada imposto a nessuno. E comunque, guarda un po'... non cucinerò una teglia al cardamomo!

seconda parte: storico-geografica
Detto questo (più per chiarire le idee a me stessa che per aumentare il baccano, visto che ho voglia molto più di ascoltare che di qualsiasi altra cosa), passo alla seconda parte del post... dove si accantona la filosofia del cardamomo e ci si caccia ancor di più nel ginepraio raccontando una ricetta di riso patate cipolle e cozze giapponese. 


Ingredienti elencati in ordine nipponico di importanza, perché lì il riso è pane di vita.  Piatto nato in Giappone. Niente copie, niente citazioni, niente stravolgimenti, niente plagi. Che meraviglia ascoltare questo silenzio...


Verificare che in continenti lontani due ricette vivono una vita parallela di medesimi ingredienti base, analoghi strumenti e tecniche di cottura simili mi ristora il cuore. 


Esiste non una "tiella giapponese" o un "donabe pugliese", ma una stessa anima di gusto e sapienza,  nata e cresciuta per conto suo in due mondi quasi agli antipodi, che ci racconta due piatti che sembrano fratelli.

Ma cominciamo dall'inizio, ovvero da un antico forno giapponese di argilla alimentato a legna, il kamado, che nasce tra il 300 ed il 700 d.C per cuocere il riso


e che con il tempo diventa prima un forno portatile, l'okikamado, poi un fornetto ancora più compatto in terracotta con un contenitore per il cibo nello stesso materiale (hagama) sospeso sopra il fuoco, (e fin qui il parallelo tra il forno a legna e la teglia di coccio delle tielle antiche regge).


Nel XVIII secolo si evolve in un contenitore specifico per la cottura del riso, il mushikamado, dapprima come fornetto di terracotta con una doppia camera di alluminio

e poi, nell'arco del XIX secolo, diventa una ciotola in creta a fondo spesso con doppio coperchio, da posizionare sopra il focolare o da introdurre in un forno normale.




Tutta questa bellissima evoluzione è approdata nel secolo scorso all'invenzione del cuoci-riso elettrico con vasca interna in alluminio (...ovvero l'equivalente della nostra teglia di alluminio in forno elettrico) e la maggior parte delle massaie giapponesi di oggi non ha mai cotto il proprio riso in altro modo. 


Non discuto sul fatto che probabilmente così i risultati sono più certi e più veloci, ma a me interessa la ricetta antica e mi piace che la storia si fermi dove si può ancora parlare di tradizione artigianale. Ecco perché qui scelgo il tegame di coccio a prescindere.


Le versioni più pregiate di mushikamado son fatte con l'argilla millenaria della provincia di Iga, dove i sedimenti di un lago preistorico creano una terracotta porosa che si dice "respiri" mentre il cibo cuoce. 


Io non ho un mushikamado ma un semplice donabe di Iga, una ciotola che gli assomiglia nella forma e può andare anch'essa su fuoco diretto ma ha uno spessore uniforme ed un unico coperchio. 

Nel senso che il donabe (do = "terra", nabe = "pentola") è sostanzialmente una teglia di coccio, dotata di coperchio come lo erano le tielle pugliesi che cuocevano sulla brace del camino con una copertura di latta. E come la tiella il nome del contenitore è passato a definire il tipo di preparazione: per i Giapponesi il donabe è sinonimo di piatto conviviale, tendenzialmente invernale, a lenta cottura (per i parametri nipponici), di solito servito nel suo contenitore unico al centro della tavola o anche direttamente cotto su un fornello al centro del convivio, con l'aggiunta progressiva degli ingredienti da parte dei commensali.

Mentre il mushikamado serve ad ottenere il riso a vapore, nei donabe si prepara di tutto, dagli stufati alle zuppe, comprese ricette dove il riso cuoce insieme ad altri ingredienti. Gli abbinamenti più comuni sono popolari, semplici e di pochi elementi: riso con pollo e bambù, riso con tofu rape e cime di rapa, riso con polpo e fave, riso con ostriche e radici di loto, riso con cozze e patate... E questa è la versione che preparo io.


terza parte: (finalmente!) mangereccia
L'isola di Hokkaido, la più a nord dell'arcipelago giapponese dove il clima è paragonabile al nostro subalpino, è famosa per la produzione di jyaga-imo, patate bianche, e di tama-negi cipolle gialle, che vengono spesso abbinate nei patti locali. Le cozze invece non vedono una grande coltivazione in Giappone, dedito prevalentemente all'allevamento delle più preziose ostriche (famosissime le perle giapponesi!). 

I Giapponesi hanno inventato infatti negli anni '70 un sistema di coltura delle ostriche talmente efficace che è stato copiato pari pari dai Neozelandesi... per la loro produzione di cozze! E i Giapponesi amanti dei mitili li importano in abbondanza proprio dalla Nuova Zelanda.


Esiste un donabe settentrionale di riso patate e cipolle che nelle isole meridionali del Giappone si prepara unendo anche cozze e bocconcini di pesce: il riso viene sciacquato, le cozze aperte a vivo e tutti gli ingredienti messi a crudo nel donabe di coccio, coperti di brodo per la cottura. 

Un po' come una tiella pugliese. Ma anche un po' come un pilaf indiano, come un plov uzbeko o come un palov tagico di Samarcanda...



Hokkaido-fū muurugai donabe gohan - Teglia di riso patate e cipolle, con cozze, nello stile di Hokkaido

ingredienti per un donabe da 16 cm., quindi per 3 o 4 persone:

200 gr. di riso giapponese (es. Okomisan coltivato in Italia), ma qui per prova ho usato del riso Roma
1 patata bianca jyaga-imo giapponese (magari!) da circa 180 gr., oppure 1 patata gialla italiana
1/2 cipolla gialla tama-negi giapponese (magari!) cioè circa 60 gr., oppure 1/2 cipolla gialla italiana
12 cozze verdi giapponesi muurugai (magari!) oppure cozze nere italiane
250 ml. circa di brodo dashi molto leggero 
1,5 cucchiai di salsa di soja chiara
1,5 cucchiai di sakè
1 cucchiaino di mirin
1 cucchiaino di olio di sesamo
3 cucchiai di Grana Padano (*)
1 cucchiaino di semi di sesamo chiari
sale

Aprire le cozze a crudo come spiega Christian, eliminandone una sola valva e conservandone tutto il  liquido, dove le si lascia riposare ben coperte ed in frigo fino all'utilizzo.


Mettere il riso a bagno per 5 minuti, sciacquarlo un paio di volte sotto l'acqua corrente e lasciarlo riposare coperto una decina di minuti.

Sbucciare la cipolla, tritarla a dimensione dei chicchi di riso e miscelarla al grana grattugiato. Conservare coperto.


Sbucciare la patata, tritarla grossolanamente quindi frullarla con 2 cucchiai di brodo dashi, fino a che i pezzetti raggiungono anch'essi la dimensione dei chicchi di riso. Conservare in frigo coperto.


Filtrare il liquido delle cozze attraverso un colino rivestito con un foglio di carta da cucina e unirvi brodo dashi tiepido fino ad arrivare a circa 250 ml. totali. Regolare se serve di sale e conservare il dashi avanzato a parte.


Condire il riso scolato con le cipolle, la soja, il sakè il mirin e l'olio di sesamo e metterne metà sul fondo del donabe (la ricetta giapponese prevede un solo strato di tutto ma qui ho preferito duplicarli).


Distribuirvi sopra 6 cozze con il guscio verso il basso e coprire con uno strato di patate. 




Ripetere uno strato di riso e uno di patate, mettendo il secondo giro di cozze sopra a tutto, quindi versare molto delicatamente il dashi "cozzato" sopra alla preparazione fino a che la copre a filo.


Chiudere il donabe con il suo coperchio e lasciar riposare 20 minuti; nel frattempo scaldare il forno statico a 200°.


Se serve aggiungere eventualmente ancora qualche cucchiaio di dashi semplice, chiudere di nuovo il donabe con il coperchio e posizionarlo in forno sul ripiano centrale per 40 minuti.


Levare il donabe dal forno e, senza aprire il coperchio, lasciar riposare per una decina di minuti.

Tostare intanto a secco in un padellino antiaderente i semi di sesamo con un pizzichino appena di sale, poi cospargerli sulla superficie del donabe e servire direttamente nel coccio al centro della tavola.




Come molti piatti poveri, casalinghi e popolari, è molto buono anche il giorno dopo.

(*) Il Grana padano non è previsto (ma pensa...) nella ricetta giapponese, che sottolinea ovviamente il gusto umami con prodotti locali come un brodo dashi abbastanza intenso e la salsa di soja. 


Qui ho alleggerito il brodo e diminuito la dose della salsa per tentare un esperimento yoshoku: sfruttare l'umami naturale del formaggio stagionato italiano, introdotto non per rendere croccante la superficie ma per giocare una sottile variante in un piatto tradizionale. Cosa avrei avuto di nuovo da imparare altrimenti?

Alla fine di tutto... il blog mi è servito tanto, ancora una volta, per imparare. Di Giappone, di Puglia, di coccio, di cozze e anche di altro.

La cucina ha una sua anima profonda ed è un'anima comune. Inutile lacerarla con le sfide. Ascoltiamo questa anima, se ascoltare le parole degli altri ci risulta difficile...



Con questa interpretazione personale di una teglia di riso patate e cozze giapponese partecipo alla raccolta di MTC di maggio
  • rivoli affluenti:
  • i disegni dei kamado sono tratti da qui
  • (preciso che l'immagine della prima serie di strati è scattata con cozze cotte. Avevo dimenticato di fotografare quella fase, quindi ho ripreparato riso e patate ma il chilo di cozze da cui avevo levato le 12 da usare a crudo era nel frattempo stato cotto)

Commenti

  1. Il buon senso, questo sconosciuto. E, soprattutto, il dimenticare quanto la diversità possa essere ricchezza, più che materia di contendere. :)
    Buona giornata. :)

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  2. Che post meraviglioso! Per cultura, saggezza ed equilibrio. Grazie

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  3. Mi sono letta tutto il post stamattina,ed ora,dopo il lavoro,sono passata a rileggermelo.
    Una sola parola:beyond.
    P.S. Ispirata da te,mi sono finalmente comprata il mio primo libro di Marguerite Patten.E' quello sullo SPAM!
    Sara' trashy, ma lo spam e' difficile da ignorare da queste parti...
    Grazie di tutto.

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  4. tu sei semplicemente troppo tutto: troppo preparata, troppo brava, troppo sensata, troppo.... troppo!
    Vado a postare questa meraviglia e, ancora stordita da tutto ciò, ti ringrazio per averla dedicata a noi
    Dani

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  5. Ciao, bel post, volevo invitarti al nostro nuovo contest:

    http://orodorienthe.blogspot.it/2013/05/spazio-alle-spezie-bbq-il-nuovo-contest.html

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  6. fantastica!!!! e io che mi preoccupo sempre di scrivere post lunhi!!!! ahahha!! un post meraviglioso,pieno di sapienza e curiosità...la ricetta idem...complimenti!!!

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  7. bellissimo post, sempre interessante e originale, da stampare :-)

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  8. Posso dire che è un post semplicemente splendido? Grazie! :)

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  9. @teresa: secondo me hanno detto tutti qualcosa di saggio, solo che si è un po' perso nella confusione...

    @mariella: grazie a te per l'eroismo di essertelo letto tutto!

    @edith.pilaff: e quale libro suo potevi sceglierti?! Sei mitica...

    @daniela: ok, pensavo peggio: meglio averti stordito che altro...

    @orodorienthe: vengo subito a curiosare!

    @antonella: pensa che l'ho diviso in tre parti apposta e davo per scontato che almeno la prima parte sarebbe stata saltata a piè pari da quasi tutti!

    @acquolina: grazie mille, troppo gentile e troppo paziente!

    @ornella: no no, grazie a te!

    RispondiElimina
  10. Non era troppo lungo, solo...troppo interessante!
    Caspita.....quanti miliardi di cose che proprio non so!!:))

    RispondiElimina
  11. Ciao Acquaviva!
    Che dire? Una taieddhra giapponese? Bellissima!
    Il tuo post è molto zen. Mi ha trascinato placido per tutto il suo scorrere. Ad un certo punto mi è sembrato di udire quei classici suoni orientali che ti rilassano e ti aprono la mente rendendola leggera. Mi piace molto la tua versione in stile Hokkaido.
    Grazie mille!
    Cristian

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  12. ero convinta di averti lasciato un commento ... anzi te l'ho lasciato ma non so cosa sia successo ... cmq il succo era: per me sei la vincitrice!!!!
    grazie davvero di questo post!
    un caro saluto
    dida

    RispondiElimina
  13. @fabiana: perchè, quelle che sai tu e non so io quante sono?! Secondo me di più!

    @cristian (senza H, scusa!): sarebbe bello riuscire davvero a vivere con la serentià che descrivi sia qui in rete che, a maggior ragione, fuori... Grazie a te.

    @dida: grazie, secondo me dovrebbe vincere invece chi riuscirà a cucinare con anima e perizia e classe la taieddhra oppure la teglia più "giusta" per spirito intrinseco

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  14. i tuoi post non sono mai troppo lunghi

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  15. @enrico: va be', sei tanto gentile che fingo di crederti... Grazie

    RispondiElimina

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