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la mia esperienza bulgara in un patatnik


L'ultima volta che sono stata in Bulgaria era il 1987. Ai tempi si trattava ancora di una repubblica comunista dietro al cortina di ferro, che percorremmo tutta con un furgone scassato adattato a camper entrando dalla Serbia (allora Jugoslavia), passando da Sofia, attraversando poi il Paese verso est fino al Mar Nero e poi costeggiandolo per scendere in Turchia.

Per tutto il viaggio ogni decina di chilometri ci fermava la milicia (come allora si chiamava la polizia): ci chiedevano documenti e visti, ci rovistavano nel camper, ci multavano con dei pretesti per cifre che a noi sembravano irrisorie ma che, ci rendemmo conto dopo, per loro erano piccole fortune e poi ci lasciavano proseguire, fino all'incontro con la pattuglia successiva.

Per un paio di volte delle persone si offrirono di aiutarci con il cambio e ci imbrogliarono, una volta scappando con il nostro denaro ed un'altra rifilandoci banconote fuori corso. Eravamo giovani ed ingenui (ed anche forse tremendamente incoscienti!) ma imparammo in fretta le cause di queste disonestà: la fame.

Tutto era scritto in cirillico e faticavamo ad orientarci, ma, nelle città come nei paesini, tra tante botteghe deserte si riconoscevano i negozi di alimentari per le lunghe code davanti alla porta: lo yogurt non mancava mai e qualche patata e poche cipolle un po' toccate si recuperavano, ma per tutto il resto, a seconda del giorno, si trovavano in vendita solo un prodotto o due. Oggi solo albicocche oppure solo uova... Terminata la merce chi era ancora in coda doveva tornare a casa a mani vuote e ritentare il giorno dopo, sperando che nel negozio arrivasse una nuova fornitura di qualcosa.

Anche nella capitale gli altri negozi erano praticamente vuoti: nella vetrina di un grande magazzino sulla via principale di Sofia troneggiava un televisore, affiancato da due  tronchi di manichino con magliette colorate. All'interno una rastrelliera con solo uno solo dei modelli di maglietta, unica taglia ed unico colore, e poi banchi di scampoli e scaffali con una gran varietà di valvole, cavi, morsetti e nastri isolanti, perché quei pochi che possedevano un televisore o altro elettrodomestico potessero aggiustarseli e farli durare a lungo.

Ristoranti rarissimi, solo di superlusso, per chi nella capitale scendeva allo Sheraton o simili e voleva assaggiare la cucina locale. Forse avremmo potuto permetterceli, visto il cambio svalutatissimo, ma certe insegne ci intimorivano e lasciammo perdere. 

Sarebbe stato interessante, con il senno di poi, capire cosa ci avrebbero servito, ma la dispensa del camper era ben fornita di scatolette e con quelle ci arrangiammo durante tutta la "traversata" della Bulgaria. La maggior parte però la regalammo.

Le città "ricche" erano quelle turistiche, sulla costa. A Varna e Budva avevano le ville di vacanza i governanti e lì venivano convogliati i rari turisti stranieri. Balere di sabbia cintata sulla spiaggia con video di cantanti locali a fare da discoteche, viali sul lungomare con venditori di pannocchie lesse a simboleggiare il lusso del superfluo nel cibo da passeggio. Ecco, lì riuscimmo a mangiare carne, spiedini di maiale alla griglia, e ci parvero buonissimi.

Quando passammo il confine in uscita, nel giro di pochi chilometri ci trovammo in un paesino imprecisato delle montagne turche nel pieno del suo mercato contadino settimanale e ci sembrò il Paese della cuccagna: verdure e frutta di vari tipi, spezie, formaggi, un macellaio, un sarto con pezze meravigliose e persino un banchetto di dolci e uno di giocattoli! Una sorta di riemersione nella civiltà dopo un incredulo percorso in apnea.

Da quel viaggio attraverso un Paese sconosciuto portai come souvenir un piccolo barattolo di confettura di rose preso a Plovdiv, unica cittadina, soleggiata ma deserta, dove trovammo una scritta in caratteri occidentali: citava Filippopoli, l'antico nome della città. 

Mi spiegarono che la marmellata di rose, come l'acqua di rose, erano specialità simbolo della Bulgaria gastronomica almeno quanto lo yogurt, che lì si diceva fosse nato. Noi la Valle delle Rose la percorremmo oltre la stagione di fioritura e sembrarono campi come gli altri; passammo oltre con superficialità, convinti che prima o poi avremmo incrociato anche bellezza, ma solo i paesaggi naturali seppero sostenerci in questa illusione.

Quel barattolino di vetro è giaciuto per decenni nel mio frigorifero come un cimelio, non solo a ricordo di una società ce non c'è più per come l'ho conosciuta, ma soprattutto a simbolo di una lezione di vita che da allora non ho mai scordato: è sbagliatissimo dare per scontato quello che si ha. 

E mentre ne scrivo rimpiango di aver recentemente concesso all'essere di buttarlo via in occasione del nostro ultimo trasloco senza nemmeno pensare di immortalarlo in una fotografia (il vasetto di marmellata intendo, non l'essere!), con il suo tappo arrugginito, l'etichetta in cirillico slavato, il profumo quasi svanito di un ricordo del cuore.

Tornando a discorsi seri, cosa successe alla Bulgaria a soli due anni dal mio viaggio è raccontato dalla storia: il giorno dopo il crollo del muro di Berlino cadde anche il regime bulgaro; qualche mese dopo si tennero libere elezioni per istituire una repubblica parlamentare, l'anno successivo fu emanata una nuova costituzione e sono poi del 2004 l'ingresso nella Nato e del 2007 quello nella Comunità Europea. E detta così sembra l'evoluzione lineare e positiva di un Paese in crescita. Cosa vera da un punto di vista politico ma decisamente meno in senso economico e sociale.

Con il cambio di orientamento politico si azzerarono gli storici rapporti commerciali con la Russia, allora principale interlocutore economico della Bulgaria, mentre le sanzioni economiche a Paesi fino ad allora con essa commercialmente attivi come la Jugoslavia o l'Iraq, un sistema bancario ancora instabile, una politica economica che cercava in modo maldestro di staccarsi dal modello di sviluppo sovietico, tutto contribuì a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei cittadini. 

Io non oso immaginare come potessero impoverirsi ulteriormente le persone che conobbi, tutte gentilissime e cordiali, nonostante ci spiegassimo a gesti. Per una vera ripartenza occorsero una quindicina di anni ed è proprio con il consolidamento dei legami con mercati stranieri ed i relativi investitori che la Bulgaria cominciò a risollevarsi, nel primo decennio del nuovo secolo.

E finalmente qui si può cominciare davvero a parlare di cucina, che non è più alimentazione di sussistenza ma torna a scavare nelle proprie origini miste, tra i Balcani, il Mediterraneo ed il Medio Oriente, e da lì parte in una evoluzione gastronomica che ha tutto il sapore gioioso di una riscossa culinaria. Perché se le tradizioni affondano in molte culture differenti, la cucina moderna che da lì si sviluppa è da una parte giovanissima e dall'altra forte di una memoria storica variegata come poche in Europa.

Ma per questo rimando all'articolo che esce mercoledì su Mag About Food, (aggiornamento del 23.05.18: l'articolo è ora pubblicato qui) dove racconto come finalmente la gastronomia bulgara abbia cominciato la sua riscossa. Qui propongo invece una ricetta imparata durante il mio viaggio, spiegatami a gesti e sorrisi, come dicevo, e che ripropongo perché, se solo da pochi anni quasi tutti gli abitanti della Bulgaria hanno potuto ricominciare a scegliere cosa, come e quanto mangiare, questo è uno dei piatti base tradizionali che non si è mai smesso di preparare non appena erano disponibili i semplici ingredienti che lo compongono. E' il пататник,  il patatnik, un tortino di patate e cipolle.

A seconda delle regioni il piatto ha varianti nella preparazione, negli ingredienti, negli aromi e nel nome, ma tutti hanno in comune patate, cipolle e formaggio. Questa versione, tipica della zona montana meridionale, richiederebbe un formaggio cremoso locale (non ne ricordo il nome, mea culpa!) che qui non si trova. Per sapore e consistenza però funziona da sostituto un misto di feta e  formaggio cremoso.

Nella cucina bulgara sono indispensabili degli insaporitori detti chubritsa, mix di erbe e spezie quasi sempre a base di sale, così come i sali aromatizzati, gli sharena. L'aroma prevalente di questa versione del patatnik è un misto di sale, pepe e una menta locale (in bulgaro djodien), che è facile ricostruire anche con prodotti nostrani come la mentuccia romana. 

La signora che me lo mostrò non metteva uova e cuoceva tutto in una pesante padella su una stufa economica, qui ho arricchito il contenuto di uova e semplificato la tecnica con il forno. Me lo servì con ljutenica, una salsa a base di peperoni arrostiti parente dell'ajvar triestino e del più piccante  biber salcasi turco, ma il piatto è ottimo anche da solo, sia caldo che (ma non fatelo sapere alla mia insegnate!) a temperatura ambiente.

Sediamoci dunque a tavola con un piatto contadino, povero e tradizionale, disarmante per semplicità, gusto e significato. Godiamocelo, con consapevolezza, ed usiamolo come base di partenza per il viaggio di mercoledì alla scoperta della rinata gastronomia bulgara odierna. 



Patatnik - Tortino bulgaro di patate
per 8 persone come antipasto/contorno, per 2 persone come piatto unico:
900 g di patate
1 grossa cipolla
100 g di feta
40 g di robiola
2 uova
1/2 cucchiaio di mentuccia secca 
1 nocina di burro
sale
pepe nero al mulinello
salsa di peperoni per accompagnare (la mia è quella turca, cui ho aggiunto un pizzico di cumino in polvere)

Pelare e grattugiare le patate, salarle, e poi strizzare con energia per estrarre più acqua possibile, passandole poi in carta assorbente.

Tritare finemente la cipolla ed unirla alle patate insieme alla feta sbriciolata e alla menta. Incorporarvi le uova leggermente sbattute con la robiola e una bella gratta di pepe.

Imburrare leggermente 4 piatti di terracotta individuali (o, come qui, 8 cocotte basse da circa 12 cm), dividervi il composto a formare uno strato abbastanza compatto spesso circa 1 cm e distribuirvi sopra qualche fiocchetto di burro.



Cuocere in forno statico a 220 °C per circa 35 minuti, fino a che i tortini sono ben asciutti e dorati in superficie ma morbidi all'interno. 



Se si usano due piatti con uno strato più alto di patate la cottura dura circa 10-15 minuti in più.

Servire ben caldo, da gustare, volendo, con la salsa di peperoni.


  • rivoli affluenti:
  • la foto della confettura di rose, non essendo più disponibile il vasetto d'epoca nel mio frigo, l'ho presa in rete qui.

Commenti

  1. Tortino semplice ma interessante che, nell'ottica del Mag about food, potrebbe andare nella rubrica del Keep calm ;)

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  2. Comunque deve essere stato un viaggio interessantissimo e me lo immagino anche un po' da brividi. Anche io desideravo fare un viaggio del genere all'epoca, ma lo temevo molto e non feci in tempo ad organizzarmelo.

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    1. per quello dico che siamo stati anche incoscienti. In quanto alla ricetta... in questa versione quasi si prepara da sola, è quella originale in padella ad essere invece impegnativa. Ma a sapore siamo abbastanza vicini... quindi teniamoci la versione keep calm!

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  3. Trieste è sempre stato un crogiuolo di razze specialmente sotto il comando militare alleato era quasi una piccola ..kasbah. Quindi i paesi dell'est erano e sono ancora rappresentati. Conosco la cucina bulgara - perso un pò per strada con gli anni. Quello che descrivi per la Bulagria nel 1990 c'era ancora in Ungheria che i siamo stati per due settimana. Anche li papate, cipolle, peperoni, aglio ovviamente e qualche pomodoro finito andavano a casa a meni vuote. Ma nei ristorantini le cose buone che facevano con queste poche cosa... ricordo una zuppa al limone (farina tostata e ....non ricordo gli ingredienti tutti) era favoloso. Sento il sapore ancora oggi. Questo tortino è semplice lo provo e la confettura di rose bulgare una cosa divina. Buona settimana cara.

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    1. di ungherese con la farina tostata conosco la zuppa di funghi, che in genere si condisce anche con succo di limone. Ora che me l'hai fatta venire in mente mi ci fiondo, tanto gli champignon sono senza stagione e in quanto al clima... potrebbe benissimo essere autunno! Poi dimmi se è quella...

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