Qui ragiono invece sul "gusto" degli antichi Romani che, se nei loro piatti più semplici, consumati dai ceti più poveri, dagli schiavi e dai contadini, andavano diritti al sapore, articolavano invece gli ingredienti in modo molto più complesso nelle vivande destinate ai più abbienti.
Di questi cibi "ricchi" abbiamo avuto esempio in quasi tutte le ricette proposte dal Calendario negli anni precedenti, prevalentemente derivate dalle descrizioni che ne fece Apicio nel suo trattato di gastronomia del V secolo d.C. Anche nelle versioni lì addomesticate per i palati odierni, viene da chiedersi come mai abbondassero tutti di spezie, erbe e aromi e come mai in origine il dolce miele, il salato del garum e l'aspro dell'aceto fossero praticamente sempre presenti in ciascuna preparazione.
Prima di tutto la distinzione di condimenti tra cibo "povero" e "ricco" non dipendeva realmente dal gusto, cioè dall'apprezzare particolari sapori, ma piuttosto dalla disponibilità economica: le spezie, quasi tutte esotiche e di importazione, gli insaporitori ricavati da prodotti di alta qualità e con lavorazioni lunghe e curate che li rendevano prodotti d'eccellenza, e gli ingredienti rari, per stagione o per provenienza, erano ovviamente tutti prodotti molto costosi, considerati parimenti elitari, dunque tutti presenti contemporaneamente in modo abbondante sulle tavole di chi se li poteva permettere, a insaporire carni, cereali nobili, pane bianco, uova, formaggi, verdure e frutta fresche e persino le bevande ed il vino.
Allo stesso modo cipolle, erbe selvatiche, pane nero e polentine di cereali economici, accompagnate da acqua al massimo profumata con aceto di seconda qualità, erano la base della dieta delle classi più basse, con in più un po' di formaggio per i contadini.
Come per le spezie dei ricchi, non è detto che le cipolle dei poveri fossero i sapori da loro più apprezzati, si trattava semplicemente di un'abitudine alimentare che nel tempo, regolata da rarità o abbondanza delle materie prime, ha finito per determinare la formazione del gusto di un popolo, di conseguenza l'apprezzamento o il rifiuto di determinati sapori ed anche il desiderio, da parte degli strati sociali più poveri, nei confronti dei cibi e dei condimenti che non potevano permettersi come ideale alimentare e golosità.
In generale, dunque, gli antichi Romani non possedevano un gusto analitico come noi contemporanei, cioè sapevano riconoscere i sapori (aspro, dolce, amaro, eccetera) ma non li distinguevano nell'utilizzo, coprendo con tutti i condimenti e gli aromi disponibili i sapori "naturali" degli ingredienti principali, che non erano da tenere in risalto ne' mediamente erano considerati un pregio.
schiavi al lavoro in una cucina partizia |
E per la stessa ragione sulla loro tavola durante i banchetti non c'era un ordine preciso nel servizio delle vivande ma ad ogni portata, che comprendeva diversi piatti, sia dolci che salati che agrodolci, ne seguiva un altra, di diversa natura ma con altrettante miscele di piatti e di aromi.
Nella cucina popolare questa mancanza di gusto analitico giocava scherzi simili quando i tanto desiderati condimenti erano a portata di mano, pur nella loro versione più economica: le "specialità" rare e da giorno di festa per il popolino erano insaporitori come l'allec, derivato dagli scarti di lavorazione del garum, l'aceto di scarto ricavato da uve malate o ammuffite, il sale di risulta dalla salamoia di pesci conservati, l'olio ricavato come sottoprodotto della sansa di olive toccate, eccetera. Erano anch'essi utilizzati massicciamente per dare gusto ai prodotti poveri che si consumavano sempre, rendendoli così delle specialità.
La mancanza di gusto analitico è un'eredità che ci siamo portati dietro fino al Medioevo, quando ancora alle corti dominava l'agrodolce, nel cibo popolare la mescolanza di sapori forti, ed in tutto la compresenza di piccante, dolce, aspro, amaro e salato, ed è quello che rende difficile riprendere delle ricette di epoca romana con coerenza filologica quando si tratta di proporle sulla tavola di oggi.
Ad esempio il moretum, piatto a base di pecorino che nasce dalle abitudini alimentari di contadini e pastori, secondo tutti e tre gli autori antichi che ce l'hanno tramandato avrebbe dovuto essere ulteriormente salato con abbondanza, mentre oggi il sale lo abbiamo proprio omesso.
Il piatto qui presentato potrebbe sembrare un dolce campagnolo ma si tratta invece una raffinatezza (in città uova e latte freschi e olio buono non potevano permetterseli in molti) anche se di semplice esecuzione, e contiene il preziosissimo e esclusivissimo pepe, tanto è vero che Apicio ne inserisce la ricetta nel libro VII "Dei cibi squisiti" (quello che contiene molti ingredienti proibiti dalle leggi censorie) al paragrafo "Dolci casalinghi". Probabilmente uno dei tanti eleganti piatti di qualche servizio principale.
Anche in questo caso è servito un ragionamento sulle quantità di miele e pepe, in ricetta originale non specificati ma sottintesi abbondanti; sono stati ricalibrati con attenzione, per evitare che la ricca golosità di un antico Romano finisse invece per sembrare a noi un pasticcio stucchevole e piccantissimo. Invece si rivela un dolce sostanzioso ma dal sapore sorprendente, da cui vale la pena di farsi tentare... magari più in quattro che in due!
DOLCE DI UOVA AL MIELE E PEPE
Ricetta originale:
Ova sphongia ex lacte
Ova quattuor, lactis heminam, olei unciam in se dissolvis, ita ut unum corpus facias. In patellam subtilem adicjies olei modicum; facies ut bulliat, et adicjies impensam quam parasti. Una parte cum fuerit coctum, vertes. In disco melle perfundis, piper aspargis, et inferes.
Traduzione del 1852:
Frittata con latte
Sciogli insieme, perchè facciano corpo, quattro uova, dieci oncie di latte ed una di olio. Getta in una padella sottile un po’ d’olio, e fallo bollire; poi mettivi la composizione che hai preparato. Quando è cotta da una parte rivoltala. Bagnala in piatto con miele; aspergi di pepe, e servi.
Rielaborazione:
La liquidità della pastella ne rende la struttura molto fragile e in cottura si spezza facilmente. Per questo invece di preparare un'unica frittata cuocio la pastella in quattro crépes più piccole e sottili, che impilo profumando ogni strato con miele e pepe.
Accompagno di mia iniziativa con frutta fresca di stagione, come tocco di lusso romano in più.
ingredienti per 2-4 persone:
4 uova
270 ml di latte (ovvero 1 emina, cioè 10 once)
27 g di olio extravergine di oliva (ovvero un'oncia) + 1/2 cucchiaio per la padella
4 o 5 cucchiai di miele
4 o 5 grani di pepe nero
aggiunta mia: 200 g di fragole fresche (o altra frutta, in base alla stagione)
Pestare il pepe a polvere fine in un mortaio. Mondare le fragole e tagliarne qualcuna in pezzi regolari.
Sbattere le uova con il latte e l'olio per avere una pastella fluida. Far riposare 10-20 minuti ma ri-sbattere poco prima di versare nel tegame.
Scaldare un cucchiaino di olio in un padellino di ferro con il fondo dal diametro di 15 cm c.a e versarvi un quarto del composto di uova, cuocendo un paio di minuti e poi voltandolo delicatamente, meglio se con l'aiuto di un coperchio.
Quando è ben cotta dai due lati versare la frittatina in un piatto, spalmare con un cucchiaio di miele, spolverizzare di pepe e tenere in caldo.
Ripetere per le successive tre frittatine, ungendo il padellino ogni volta con una goccia di nuovo olio, sovrapponendo le crèpes alle precedenti una volta pronte e insaporendo ognuna con miele e pepe.
Distribuire qualche fragola tagliata sull'ultima crépe e colare nuovamente un po' di miele per lucidare la superficie perchè nel frattempo il precedente sarà stato assorbito.
Spolverare ancora con il pepe e servire, con il resto delle fragole a parte.
rivoli affluenti:
Apicio, Manuale di gastronomia, (c.a 400 d.C), traduzione Adriana Bertozzi, Rizzoli, 2009, ISBN 978-88-17-02977-3
Gianbatista Baseggio, Celio Apicio, delle vivande e condimenti ovvero dell’arte della cucina. Volgarizzamento con annotazioni, G. Antonelli Editore, Venezia, 1852
Claudio Benporat, Storia della Gastronomia Italiana, Mursia, 1990, EAN 9788842507505
Alberto Capatti, Massimo Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, 1999, ISBN 88-420-5884-X
Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari (cura), Storia dell’alimentazione, Laterza, 1997, ISBN 88-420-5347-3;
Gruppo Archeologico Ambrosiano, Nutrire l’impero romano. La filiera alimentare nell’antica Roma, gli approvvigionamenti, le ricette, Mursia, 2016, ISBN 978-88-425-5751-7 (da qui è presa anche l'illustrazione della cucina patrizia)
Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi, 1990, ISBN 88-06-12867-1.
DOLCE DI UOVA AL MIELE E PEPE
Ricetta originale:
Ova sphongia ex lacte
Ova quattuor, lactis heminam, olei unciam in se dissolvis, ita ut unum corpus facias. In patellam subtilem adicjies olei modicum; facies ut bulliat, et adicjies impensam quam parasti. Una parte cum fuerit coctum, vertes. In disco melle perfundis, piper aspargis, et inferes.
Traduzione del 1852:
Frittata con latte
Sciogli insieme, perchè facciano corpo, quattro uova, dieci oncie di latte ed una di olio. Getta in una padella sottile un po’ d’olio, e fallo bollire; poi mettivi la composizione che hai preparato. Quando è cotta da una parte rivoltala. Bagnala in piatto con miele; aspergi di pepe, e servi.
Rielaborazione:
La liquidità della pastella ne rende la struttura molto fragile e in cottura si spezza facilmente. Per questo invece di preparare un'unica frittata cuocio la pastella in quattro crépes più piccole e sottili, che impilo profumando ogni strato con miele e pepe.
Accompagno di mia iniziativa con frutta fresca di stagione, come tocco di lusso romano in più.
ingredienti per 2-4 persone:
4 uova
270 ml di latte (ovvero 1 emina, cioè 10 once)
27 g di olio extravergine di oliva (ovvero un'oncia) + 1/2 cucchiaio per la padella
4 o 5 cucchiai di miele
4 o 5 grani di pepe nero
aggiunta mia: 200 g di fragole fresche (o altra frutta, in base alla stagione)
Pestare il pepe a polvere fine in un mortaio. Mondare le fragole e tagliarne qualcuna in pezzi regolari.
Sbattere le uova con il latte e l'olio per avere una pastella fluida. Far riposare 10-20 minuti ma ri-sbattere poco prima di versare nel tegame.
Scaldare un cucchiaino di olio in un padellino di ferro con il fondo dal diametro di 15 cm c.a e versarvi un quarto del composto di uova, cuocendo un paio di minuti e poi voltandolo delicatamente, meglio se con l'aiuto di un coperchio.
Quando è ben cotta dai due lati versare la frittatina in un piatto, spalmare con un cucchiaio di miele, spolverizzare di pepe e tenere in caldo.
Ripetere per le successive tre frittatine, ungendo il padellino ogni volta con una goccia di nuovo olio, sovrapponendo le crèpes alle precedenti una volta pronte e insaporendo ognuna con miele e pepe.
Distribuire qualche fragola tagliata sull'ultima crépe e colare nuovamente un po' di miele per lucidare la superficie perchè nel frattempo il precedente sarà stato assorbito.
Grazie per questo ulteriore approfondimento in cui si riesce a percepire come gli antichi romani si confrontavano con il cibo, conoscere è una ricchezza che ci permette di capire
RispondiEliminaIl dolce come il Moretum sono da gustare
Un abbraccio 😘
la vera risorsa sei tu Manu, c'è poco da fare e nient'altro da dire. in quanto ai cibi storici... ho organizzato cene a tema per anni, sono una delle mie passioni e capisco assolutamente il tuo entusiasmo.
EliminaChe articolo meraviglioso! Sono da sempre appassionata della cucina degli antichi romani, avevo partecipato anch'io alle attività del calendario rifacendo una ricetta di Apicio. Grazie per queste ulteriori informazioni. E' sempre un piacere leggerti.
RispondiEliminaps: sono medievale nel gusto, adoro l'agrodolce ;-)
sì sì avevo visto, infatti ti ho pure citato nell'articolo di oggi che ho scritto per il Calendario. Anche a me piace tantissimo l'agrodolce, magari in modo un filo più consapevole rispetto a quello romano.
EliminaGrazie! Ho letto ora quello sul sito del Calendario :-)
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