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riso rosso al granchio, con cavolo blu e nuvole di cielo Gullah: la ricetta creativa partendo dal red rice dell'MTC Taste the World

(Full English version, here, English recipe below)

All'interno del novello MTC Taste the World stiamo conoscendo sulla cultura Gullah-Gheechee e sul red rice che ne caratterizza la specificità gastronomica. Nel mio post precedente dove ho riprodotto la ricetta base originale, ragionavo sul colore rosso donato al piatto dal pomodoro, che si chiama anche Mulatto rice per la tinta brunita che prende il riso, dovuto sia al pomodoro che alla tostatura delle verdure e del grasso del bacon. Ogni famiglia Gullah ha ovviamente la propria ricetta: chi lo preferisce bello rosso e profumato di pomodoro chi invece predilige un sapore più complesso ed un colore meno spiccato, in modo che il pomodoro partecipi ma non sia protagonista.

Avendo scoperto che Alessandra è della prima scuola perchè lega molto il piatto alle sue origini africane, e di conseguenza al jollof rice e al thieboudienne, mentre io mi dedicavo ad approfondire la sua evoluzione sul suolo americano, ho deciso di non raccontare in questo post gli antichi legami culinari dei Gullah con la Madre Patria, che sono comunque indagati da molti altri partecipanti, ma ad una ulteriore eredità di cui gli Americani sono debitori agli antichi schiavi: la storia dell' indaco come tintura dei tessuti.
Oltre al riso, di cui dopo oltre 250 anni di "appropriazione indebita" si è attestata ufficialmente l'origine africana solo negli anni '80 del secolo scorso, anche la produzione dell'indaco è antica e non autoctona: presente in varie parti del mondo dal clima subtropicale, nelle Americhe era sconosciuta ed è arrivata proprio attraverso gli stessi schiavi che vi portarono il riso ed i proprietari terrieri lo adottarono subito perchè gli stessi lavoranti potevano provvedere efficacemente, in momenti e periodi diversi, ad entrambe le colture, ottimizzandone i costi e massimizzandone i ricavi. 

Ma è un vizio corrente: uno dei simboli iconici degli Stati uniti sono i blue jeans, che devono la tela a Genova (o a Chieri, o a Nimes, la diatriba è ancora aperta, comunque tela europea che arrivava in America nell'800 su navi partite da Genova) e devono il colore blu proprio all'indaco di cui nel frattempo gli Americani si erano impratichiti grazie agli insegnamenti degli esperti africani schiavizzati e dei loro discendenti.
Con le proprie origini africane oggi i Gullah Gheechee hanno un rapporto curioso: nel Gullah Festival che si tiene ogni anno a Beaufort si assiste a spettacoli non tanto della comunità locale quanto di artisti africani invitati per rappresentare danze e canti tradizionali della terra natale.

Si vendono comunque magliette e gadget con slogan di orgoglio nero, Gullah e africano e si espongono oggetti legati all'artigianato artistico locale, non solo africano, come cesti intrecciati con paglie multicolori (derivati dai tradizionali shukublay della Sierra Leone), scope di foglie di palma, tamburi, sculture in legno, contenitori ricavati dalle zucche, tessuti blu tinti a mano, quilt confezionati con motivi africani, dipinti di artisti Gullah.
Le bancarelle del cibo, però, mostrano quanto la cucina Gullah-Gheechee sia oggi differente da quella attuale africana: ci sono, certo, dei legami diretti, il riso, l'okra e sesamo ne sono l'esempio più facile, ma tanti dei prodotti di origine africana vengono oggi cucinati alla "afroamericana", non solo con accostamenti diversi da quelli usuali africani ma proprio in un altro spirito. 

Insomma: chi proviene da Senegal o Sierra Leone e, ad una cena Gullah, assaggia un purloo (un red rice molto ricco di aggiunte), un Frogmore stew (stufato di patate e mais con salsiccia e gamberi, tutto cotto in birra e spezie) o dei goobers (arachidi rivestite di cioccolato) capisce che questi piatti hanno legami storici con jollof, mafè e kulikuli, esattamente come noi in uno spaghetti and meatballs o a un chicken Parmesan possiamo trovare dei riferimenti all'Italia. 
Si tratta di piatti nuovi, "autenticamente" afroamericani e Gullah o, nel nostro caso, autenticamente italo-americani, che raccontano una storia di evoluzione ed adattamento ma anche la nascita di gusti differenti, alternativi, anche se con ingenuo rispetto, a quelli a cui i palati del Paese di origine fanno tuttora riferimento. I secoli non sono passati impunemente: le mescolanze hanno giustamente creato evoluzioni anche in campo gastronomico e le nuove generazioni forse è più saggio imparino a cucinare dai propri nonni ciò che i loro stessi antenati hanno saputo inventare nella nuova terra e alle nuove condizioni, più che cercare di ricostruire a tutti i costi gusti lontani ed antichi che oramai non sono più i loro.

Se poi pensiamo che anche a livello locale esistono evoluzioni differenti, il discorso della "ricostruzione" esatta ci si accorge essere impossibile: gli schiavi, deportati dai territori della costa africana compresa tra gli attuali Senegal e Camerun, arrivavano nelle Low Country Regions, (oltre il 40% sbarcati proprio a Charleston) e venivano distribuiti nelle Lowlands, ovvero la terraferma leggermente più interna, dove con il tempo si è formata una comunità che prende il nome di Highland o Freshwater Gheechee, e nelle Sea Islands, le isole e la costa, con il nome di Saltwater o Lowland Ghechee, tutti termini comunque considerati spregiativi da chi  considerava i Gullah ignoranti e stupidi perchè non imparavano l'inglese ma parlavano un broken English.

In verità, essendo rimasti praticamente isolati almeno per i primi 60 anni della loro permanenza in America, sia perchè i proprietari delle piantagioni di riso ne abitavano lontano a causa della malaria diffusa dalle zanzare, sia perchè non c'erano ponti tra isole e terraferma e le si raggiungeva solo con le barche (che gli schiavi non avevano a disposizione). Dei ponti veri e propri vennero costruiti solo negli anni '20, i discendenti dei primi schiavi deportati ebbero così modo di conservarne a lungo sia lingue che usi e costumi, che solo gradualmente miscelarono a quelli del Paese ospitante. 
Così come la attuale lingua Gullah è dunque un inglese miscelato alle lingue delle tribù di origine, al creolo del Belize, al patoise giamaicano e ai dialetti delle Barbados e delle Bahamas, altrettanto si può dire della loro cucina, come abbiamo visto, che è stratificata e complessa anche al proprio interno, date le sottili ma fondamentali differenze tra Costa e isole ma anche tra una tradizione familiare e un'altra. 

Ciò che resta forte e intensamente "africano" e distintivo è soprattutto una cultura basata su spiritualità, famiglia, cibo, musica e lingua e, in cucina, le cotture lente, il concetto di piatto unico che mette in pentola tutto ciò che è disponibile, la passione per ogni ingrediente di terra e di mare che sia fresco e di stagione.

Ecco perchè nella mia versione creativa del red rice non cerco di inserire, tranne che per un piccolo tocco, gli ingredienti africani che gli schiavi portarono con loro (tipo okra, igname, arachidi, sesamo, cavolo nero, melanzane o burro di karitè), ma di ragionare su quei prodotti che gli schiavi hanno trovato al loro arrivo, in qualche modo riconosciuto familiare e dunque potuto sfruttare fin dall'inizio: granchi, gamberi, ostriche, buccini (varietà locale di murici), triglie, spigole, merlani, squali, tartarughe o lepri, e ogni verdura possibile, tra cui apprezzatissimi zucche, zucchine e piselli.

Molti di questi ingredienti si sono poi assestati nella cucina dei loro discendenti, uniti ai nuovi ingredienti che avevano con il tempo imparato a conoscere come pomodori, mais, peperoni o tacchino, creando con tutto ciò dei sapori tipici Gullah ma diversi da quelli africani, sapori che i pronipoti nel Nuovo Mondo spesso neppure conoscevano e talmente identificativi che gli Africani di oggi ovviamente non riconoscono come totalmente propri.

Quindi nel riso "creativo" introduco ingredienti che avrebbero potuto usare i primi schiavi sbarcati in America, con curiosità e stupore per nuovi prodotti e affetto per quelli che assomigliavano a quelli lasciati in patria. La citazione africana non sta direttamente nel riso ed è una semplicemente nota blu nei due accompagnamenti: il legame storico e simbolico tra riso e indaco in questa piccola grande storia non può essere ignorato, se vogliamo raccontare il ruolo decisivo che i Gullah-Gheechee nella storia americana.

Ma torniamo un momento all'indaco: la coltivazione della indigofera tintoria, pianta della famiglia delle fave, fiorì in South Carolina, Georgia e Florida a partire dal 1719 per diversificare commercialmente l'economia del riso e ricavare guadagni con l'esportare del prezioso colorante in Gran Bretagna. La pianta era di origine africana, usata per centinaia di anni in quei territori per tingere abiti, amuleti e anche la pelle (Tuareg e Uomini Blu ci dice qualcosa?), e le lavorazioni erano concentrate proprio nelle zone delle risaie perchè occorreva molta acqua nel processo di tintura per far ben penetrare il colore nei tessuti.
Le tecniche di produzione del colorante erano tramandate di padre in figlio come segreto di famiglia, per evitare che la tinta penetrasse in certi punti del tessuto li si copriva con la cera e come fissante si usava l'amido di cassava. Si tratta della "tintura a riserva", conosciuta anche in Giappone come shibori-zome 絞り染め (dove si usava invece amido di riso, cosa che, con gli scambi commerciali successivi, via California, di tinture e cere, viene in uso anche in America) e in India come batik

Il processo per ottenere l'indaco era complesso: le foglie venivano fatte fermentare, poi ossidate all'aria, quindi fatto precipitare il pigmento e poi essiccato. Serviva dunque un continuo ricambio di personale esperto perchè nella lavorazione si sviluppavano sostanze tossiche, tanto che un addetto difficilmente sopravviveva più di sette anni al lavoro quotidiano. Anche in Africa, infatti, i villaggi dei tintori erano isolati dagli altri e le piante erano spesso lavorate in radure circondate da boschi e lontane dai villaggi, per evitare che la povere blu fosse trasportata dal vento e li contagiasse.
tintori nigeriani

Per questo i proprietari delle piantagioni americane di indaco ne abitavano lontano e per questo la ricerca di schiavi esperti era continua: nei bandi dell'epoca viene esplicitamente richiesto ai mercanti di schiavi di procurare dalle zone africane culla del riso anche uomini giovani e sani con le mani tinte di blu, segno della loro esperienza pratica con l'indaco. In sostanza: gli schiavi venivano importati per riso e indaco insieme, perchè reperibili nelle stesse regioni dell'Africa, dotati di competenze analoghe, quindi sfruttabili in sinergie economiche che legavano riso, indaco e il poco distante cotone, perfetto materiale da tingere, in affari particolarmente lucrosi. 

Dopo parecchi decenni di abbandono di produzione e tintura di tessuti indaco old style, dalla seconda metà dell'800, stanno di recente nascendo in zona dei progetti di rivalorizzazione della produzione tradizionale dell'indaco, con colture organiche ma ovviamente con lavorazioni completamente sicure, il che contribuisce non solo al recupero della memoria storica, ma anche alla conservazione dell'integrità culturale Gullah e ad sostentamento economico delle famiglie locali. Rappresenta anche uno stimolo per le nuove leve a non abbandonare il territorio, con la prospettiva, una volta ben attivato il circuito, di poter proporre prodotti semi-artigianali di qualità alta e sostenibile ad un mercato non solo e locale o turistico. 
L'indaco, d'altronde, permea la cultura Gullah-Gheechee: negli anni '30 un autore del Federal Writers Project in visita alla comunità di pescatori Gullah-Geechee di White Bluff, poco fuori Savannah, descriveva gli stipiti o le porte di ingresso delle case dipinti di blu e le bottiglie blu appese agli alberi davanti ad esse per intrappolare gli spiriti e proteggere la famiglia che vi abitava. 
L'uso simbolico del colore blu, infatti, e la fiducia nel suo potere protettivo fa parte della spiritualità Gullah legata in parte al Cristianesimo e in parte alla cultura hudu ("commercialmente nota come woodoo) di derivazione  africane. Colore di protezione nei confronti degli spiriti malvagi, (haint blue, è la parola Gullah per indaco e haint significa haunt, spirito), il blu è usato spesso in modo semplice per molti oggetti quotidiani dai Gullah-Gehchee, e colora oggetti e simboli scaramantici e religiosi perchè imita il colore del cielo, ingannando gli spiriti che credono di dovergli passare oltre per recarsi altrove, o il colore dell'acqua, in cui credono di essere caduti e da cui non possono più  uscire. Se oggi la parte più "magica" si è persa, si dipingono ancora porte e persiane sciogliendo l'indaco in latte e liscivia, perchè lo si ritiene un deterrente per vespe e ragni.
Il soffitto dei portici Gullah viene spesso dipinto di blu per accogliere gli antenati schiavi, mentre i defunti vengono seppelliti con amuleti di perline blu. Quando qualche anno fa sono stati trovati i resti di un cimitero settecentesco a Charleston durante degli scavi edili, con una toccante cerimonia è stato reso omaggio alle salme ri-donando loro un nome africano e seppellendole in altro sito avvolte in sudari blu. 
Anche la odierna bandiera della Nazione Gullah-Gheechee è a fondo blu: l'anello con la scritta rappresenta l'unità creata dalla lingua (il Gullah, di cui il Gheechee è un dialetto), il disco dorato simboleggia l'eredità del "popolo del sole" africano, mentre l'ampio fondo blu ricorda il mare in cui un gruppo di deportati di origine Igbo (ora Nigeria) nel 1803 preferì annegare affondando la nave negriera piuttosto che condurre vita da schiavi. 

Ma è anche il simbolo del vasto oceano blu che unisce le coste americane a quelle degli antenati africani, mentre lo spicchio azzurro è il cielo che protegge i campi di erba con cui si intrecciano cesti tipici Gullah, che venivano un tempo utilizzati per la monda del riso e per la raccolta dei frutti della terra  ed hanno oggi invece scopo ornamentale e di memoria. Le radici vive e profonde dell'albero dei Gullah-Gheechee, infine, affondano nel passato e la sua chioma verde si protende verso il futuro delle nuove generazioni.

Portare l'indaco nella mia ricetta creativa è dovuto a tutti questi motivi. Purtroppo l'indaco in polvere, per quanto di origine naturale, è un colorante tessile inadatto in cucina e devo cercare un altro sistema. E comunque non posso preparare un blue rice (che esiste davvero, in tradizioni diverse: è il nasi kerabu malese, colorato con i fiori blu di una varietà alimentare di convolvolo), 
o ai giudici si rizzano i capelli in testa, visto che il regolamento chiede un riso red, oltre che long grain, pilaf e con pomodoro. Dunque il blu, una volta trovato, può stare nel piatto ma non nel riso. 

Detto ciò: che red rice preparare? Parto dalle varie ricette di red rice che conoscevo prima dell'MTC, carpite in loco o tratte da libri specializzati a partire dai primi anni '90. Ovviamente tutte diverse tra loro, come tutti i piatti in cui interviene la tradizione familiare, e nessuna come quella di Toni Tipton Martin citata dall'MTC nonostante una sia proprio sua*. 

Per esempio in una delle mie vecchie ricette si una usa per 1 tazza di riso 1 pomodoro crudo e 1 cucchiaio di concentrato in 2 tazze di brodo di pollo (granulare) e si profuma con cumino e abbondante coriandolo fresco; una seconda usa un pomodoro e mezzo, niente concentrato e brodo di pollo home made con cipolla, timo e alloro, cuoce il pilaf in forno e aggiunge noci pecan tostate; una terza cuoce il riso direttamente nella passata di pomodoro appena allungata con acqua e decora con bacon croccante, una addirittura trita un piccolo pomodoro crudo nel soffritto del riso e poi lo serve con altro pomodoro cotto a parte.
Altre ricette arricchiscono questa base con frutti di mare, oppure salsicce o collo di tacchino, e/o con verdure come peperoni verdi, patate dolci, cipollotti, ma anche con foglie di cavolo nero stracotte in quasi una crema. Tutto ciò viene comunque cotto a parte e sempre aggiunto all'ultimo, con poi, a riso spento, quasi sempre un dollop finale di burro morbido o di strutto. 

Tutto molto interessante e per il riso prendo spunti a manetta... ma niente di blu! Per fortuna ho una ricetta Gullah di cavolo cappuccio saltato con bacon, peperoni rossi e cipolle a cui potrei invertire i colori: se uso cavolo rosso, che scottato diventa blu, e peperoni giallo-verdi, ho pronto un contorno e dall'acqua dove è cotto il cavolo, che si tinge di blu, ricavo il mio secondo tocco indaco.

Già, perchè voglio anche qualcosa da mettere SOPRA al riso, non solo al suo fianco, come il cielo azzurro sta sopra i campi e le case dei Gullah... quindi ci coloro delle cialde di riso, (il mio piccolo blue rice personale!) leggere come le nuvole delle Low Countries, che preparo con della farina di riso giapponese, che non solo è perfettamente impalpabile come serve alla ricetta, ma è esattamente come quella da cui impararono in Georgia a tingere di indaco il cotone in mancanza della cassava!

Profumo sia le verdure che le sfogliatine con un mix di spezie molto caratteristico della cucina Gullah, che quindi contiene "obbligatoriamente" aglio, cipolla, paprika, alloro e timo, lo pesto nel mortaio partendo da semi, bacche ed erbe secche interi, quindi risulta un filo rustico, ma esistono mix pronti in commercio, localmente e credo anche on line.
All'impasto delle cialde aggiungo pure dei semi di sesamo, così non solo cito direttamente l'Africa (il sesamo, tipico del Madagascar, si diffuse presto anche in tutta l'Africa Occidentale ed anch'esso arrivò in America tramite gli schiavi), ma riporto immediatamente chi conosce la zona ai benne wafers

Si tratta di biscottini dolci, tipicissimi di Charleston, che rappresentano in cucina la somma di culture e di apporti consolidatasi nei secoli: derivano infatti da classici tea bisquits inglesi di farina, uova, burro e baking powder ma contengono il sesamo e si dice pure portino fortuna. La stessa cosa pensano i Gullah (e si crede in Africa, guarda caso) proprio dei semi di sesamo, che, appunto  sia in lingua Bantu che in Gullah si chiamano benne!
Per la verità alla prima prova con solo acqua blu le sfoglie essiccandosi sono diventate verde bosco e poi fritte verde marcio, quindi ho riprovato aggiungendo anche un pochino di spirulina blu in polvere (naturale e di origine marina... si fa quel che si può!): non è bastato e con la seconda prova è venuto un impasto azzurro nel panetto, grigio-verde da cotto, verde-ferro le cialde una volta secche e grigio perla da fritte, come in foto sulla destra. Le ho comunque preferite alle prime troppo verdi, visibili a sinistra, perchè su fondo azzurro possono comunque sembrare delle nuvole!
Mi spiace non avete tempo per una terza versione, decisamente più indaco. Forse invece di tutti questi ragionamenti avrei dovuto usare abbondanti coloranti, tipo quelli chimici della pasticceria statunitense, ma questa ricetta omaggia la cucina Gullah, non quella americana, quindi diciamo che conta il pensiero e ci accontentiamo, lasciando il blu chimico tutto alle velvet cake.
Se il cavolo saltato  è un side dish e le sfogliatine una decorazione, mi permetto di fondere il concetto base del red rice con quello di un'altra preparazione tipica delle Sea Islands: il crab fried rice: di norma in questa ricetta non c'è ombra di pomodoro ed il riso non è cotto pilaf ma viene scottato in acqua e poi saltato con bacon e polpa di granchi locali, insieme al consueto soffritto di cipolla, peperoni verdi e sedano, la holy trinity che domina nel sud degli Stati Uniti. 

Sia granchio che holy trinity sono aggiunte abbastanza classiche per i red rice casalinghi ed entrambi stanno bene con il pomodoro, dunque decido di contaminare così il mio e, come spesso d'uso nelle varianti locali della nostra ricetta base, li aggiungo (anche) a cottura terminata. Utilizzo inoltre un pochino di granchio anche per insaporire il brodo, che resta quello di pollo come in molte zuppe di pesce della East Coast, tra cui la mitica Southern she-crab soup. Ho solo il rammarico di non aver trovato il granchio che cercavo, nemmeno surgelato, e non aver più avuto tempo di ordinarlo, per cui alla fine ho dovuto usare quello in scatola.

Adesso manca solo da decidere cosa ci abbiniamo da bere, e direi che è quasi d'obbligo una variante chiara e semi-secca del muscadine wine**, il vino dal colore e dalla dolcezza variabile "inventato" dai Gullah con un'uva locale dai chicchi enormi.
Per gli astemi, invece, è subito pronta una bella brocca di swamp water, che da queste parti  non è "acqua di palude" e neppure il famoso cocktail a base di ananas e Chartreuse, ma un semplice mix di limonata e tè.
La ricetta, lunga da motivare, in cucina in realtà è presto fatta, soprattutto se le sfogliatine sono preparate in anticipo e restano unicamente da friggere. Mettiamoci all'opera, dunque, che è quasi ora di cena!
CRAB RED RICE, BLUE CABBAGE, (VIRTUALLY INDIGO) SPICY CHIPS - RISO ROSSO AL GRANCHIO CON CAVOLO BLU E SFOGLIATINE  SPEZIATE (POTENZIALMENTE INDACO)
ingredienti per 2 persone come piatto unico:
per il riso:
200 g di riso a chicco lungo (qui brasiliano)
250 g di polpa di granchio in scatola (sigh!), peso netto sgocciolato
30 g di pancetta tesa affumicata
1 piccolo pomodoro da sugo ben maturo
1 piccola cipolla (qui rossa)
1/2 peperone verde
2 cipollini verdi
1 gambo di sedano
2 spicchi di aglio
c.a 600 ml di brodo di pollo (preparato come nella ricetta precedente
1 bel cucchiaio di concentrato di pomodoro
1 ciuffo di coriandolo
2 cucchiai di olio di arachidi
20 g di burro
4 grani di pepe nero
1/2 cucchiaino di zucchero
sale

per le sfogliatine blu:
mezzo cavolo rosso, c.a 600 g
circa 100 g di farina di riso (non glutinoso)
c.a 80 g di polpa di granchio (la mia in scatola, peso netto)
1 cucchiaio di semi di sesamo
1 cucchiaino di mix in polvere di: semi di sedano, paprika, aglio, cipolla, pepe nero, timo, alloro, zenzero, noce moscata, semi di senape
4 g di polvere di spirulina
sale
1 pentolino di olio di arachidi per friggere

per il contorno:
le foglie lessate del cavolo rosso (che nella ricetta classica si usano a crudo)
1 peperone screziato di verde e giallo
1 piccola cipolla
1 spicchio di aglio
olio di arachidi (ma ci andrebbe strutto o bacon)
1/2 cucchiaino del mix di spezie (che non ci vorrebbe)
pepe nero al mulinello
sale

Per le sfogliatine scottare il mezzo cavolo tagliato a grossi spicchi  in un litro abbondante di acqua bollente con un pizzico di sale per 3 minuti circa, fino a che hanno cambiato colore da violetto a bluastro, poi spegnere. 

Filtrare 100 ml di acqua (se risulta troppo violetta unire un pizzico appena di bicarbonato) e lasciarla intiepidire. Raffreddare al volo le foglie lessate in acqua fredda, scolarle bene, tagliarle a quadrotti da 4 o 5 cm e conservarle per il contorno. 
Scolare, sminuzzare e strizzare bene la polpa di granchio, unirvi pari peso + 15 % di farina di riso (io 75 polpa + 90 farina), le spezie, la spirulina e e un pizzico di sale. Frullare in una pasta omogenea unendo a filo circa metà peso della polpa (io 35 g) di acqua blu, in modo che la pasta sia asciutta e compatta, quindi aggiungere il sesamo. 

Lavorare energicamente su un piano appena spolverato di farina di riso per diversi minuti, fino a che l’impasto risulta omogeneo e non si sbriciola più, senza cedere alla tentazione di unire altra acqua: nell'impastatrice la massa non si aggrega, mentre se aggiunge acqua le sfoglie in frittura non si gonfiano. 
Formare un salsicciotto compatto lungo circa 10 cm e spesso 5, disporlo in un cestello foderato di carta forno sforacchiata e cuocere a vapore sopra acqua in ebollizione, chiuso da un coperchio pesante, per circa 1 ora e mezza, fino a che la superficie è lucida e gelatinosa alla vista e leggermente appiccicosa al tatto. 
Lasciar freddare, avvolgere strettamente il cilindro in pellicola e lascialo compattare in frigorifero per 24 ore, in modo che si rassodi decisamente. 

Affettare sottilissimo, meglio con l’affettatrice, la mandolina o il pelapatate, in circa un centinaio di lamelle spesse 1 mm. Disporle su placche da forno foderate di carta o silicone e a questo punto scegliere una delle seguenti vie:  
  • disporre i vassoi al sole all'aperto in luogo arieggiato per 2 o 3 giorni (!)
  • disporli in casa, sempre al sole, di fronte ad un ventilatore per altrettanto tempo (!!)
  • ringraziare il cielo di averlo ed usare l'essiccatore (!!!)
  • se come me si abita in località dove il sole non arroventa ma crea afa, se non si dispone neanche di un balcone ne' , figuriamoci, di tre giorni di tempo, rassegnarsi ad accendere il forno e far asciugare le sfogliatine a 60 °C ventilato  per un paio di ore circa, voltandole dopo un'oretta.
In ogni caso le cialde sono pronte quando sono secche, dure e leggermente incurvate. 
Così si possono conservare per mesi in un sacchetto di plastica ben chiuso, per poi friggerle poco prima del consumo in olio a 180 °C, un paio per volta perché si allargano molto e sono pronte in pochi secondi. Far scolare su carta assorbente e servire entro un paio d’ore o perdono croccantezza.
Per il contorno soffriggere le foglie scottate del cavolo insieme alla cipolla tritata grossa, all'aglio tritato fine ed al peperone ridotto a listarelle; quando il volume si  un po' ridotto salare, unire le spezie e far insaporire per qualche minuto, a piacere da 5 a 30, a seconda di quanto si vogliano le verdure soffici o croccanti, eventualmente unendo un goccio di acqua se si vuole stufarle più a lungo. Alla fine pepare abbondantemente.
Per il brodo portare a bollore quello di pollo insieme a 50 g di polpa di granchio (e, ereticamente, essendo in scatola, anche 4 o 5 cucchiai del suo liquido di conserva, che è composto da acqua, sale, zucchero e acido citrico) allo zucchero e ai grani di pepe, lasciandolo sobbollire per una mezz'oretta fino a che è bello profumato. Filtrare e misurarne 500 ml.

Per il riso ridurre la pancetta a striscioline e saltarlo in una casseruola di ghisa fino a che non è croccante. Levare e al suo fondo unire l'olio.

Rosolarvi cipolla, sedano e peperone tritati grossolanamente, l'aglio tritato finissimo e le parti bianche dei cipollotti a rondelle, cuocendo qualche minuto a fuoco medio, eventualmente coperto, fino a che cipolle e peperoni sono abbastanza morbidi. 

Levare dal tegame quasi tutto il soffritto, lasciandone nel tegame solo un paio di cucchiaiate,  unirvi il riso e farlo tostare due o tre minuti, fino a che diventa bianco. 

Unire il concentrato e il pomodoro sminuzzato e far insaporire bene, poi coprire con il brodo bollente, coprire bene e cuocere per circa 15 minuti a fiamma bassa, fino a che l'acqua è assorbita.

Poco prima di spegnere riscaldare a parte il soffritto con 200 g di polpa di granchio, far insaporire un paio di minuti, unendo un cucchiaio di brodo, se serve, per evitare che si asciughi troppo. Unirvi infine il verde dei cipollini a rondelle e il bacon, saltare un altro minuto, regolare di sale e spegnere.
Spegnere il riso, sgranarlo, unirvi il mix di granchio, mescolare bene.
Deporvi sopra una manciata di coriandolo tritato la noce di burro, coprire di nuovo e lasciar riposare altri 5 minuti.
Mescolare bene il riso e servire decorato con ciuffetti di coriandolo e qualche sfogliatina croccante, con la ciotola del cavolo a fianco.
Entrambi sono ottimi sia caldo che tiepido ma le bevande devono essere entrambe ghiacciate.

English version: CRAB RED RICE, BLUE CABBAGE, (VIRTUALLY INDIGO) SPICY CHIPS
A mix of red rice and crab rice ingredients, 'cause both crab and holy trinity are good with tomato. A red cabbage/yellow bell pepper sautè as side dish, instead of the classic white cabbage/red pepper by Sallie Ann Robinson, so the cooked cabbage turns blue as the Gullah-Gheechee Nation flag, the sea between Africa ad America and the sky of Lowlands. Indigo (in my intention, grey as result) "cloud", rice chips made by scratch, to link indigo dye story to rice story, both a heritage to US from African slaves.

RED CRAB RICE WITH BLUE CABBAGE AND (VIRTUALLY INDIGO) SPICY "CLOUD" CHIPS

serving 2-4... depending on how hungry

for rice:

200 g long grain rice, here Brazilian (no Carolina Gold available, but both have a very similar history)
250 g crab meat, drained net weight
30 g smoked bacon
1 small well-ripe tomato, chopped 
1 small onion, here red, chopped
1/2 green bellpepper, chopped
2 thin spring onions, cut into thin round slices
1 celery stalk, chopped
2 cloves garli, finely minced
600 ml chicken broth (homemade as in my previous post)
1 large spoonful tomato paste
1 sprig fresh coriander, coarsely chopped
2 tablespoons peanut oil (canola oil is poorly considered in Italian tradition and not easily available, but peanuts came to America from Africa...)
20 g butter
4 black peppercorns
1/2 teaspoon sugar
salt to taste
1/2 red cabbage, about 600 g
100 g rice flour, the non-glutinous one
80 g crab meat (net weight)
1 tbsp sesame seeds
1 teaspoon powder mix of: celery seeds, paprika, garlic, onion, black pepper, thyme, bay leaf, ginger, nutmeg, mustard seeds
4 g spirulina powder
salt
peanut oil for frying

for the side dish:
1/2 cabbage boiled leaves (white and raw in the original recipe)
1 yellow-green bell pepper (red in the original recipe), cut into stripes
1 small onion, chopped
1 clove garlic, minced
1 tablespoon peanut oil (but lard or bacon would go)
1/2 teaspoon of spice mix (not in the original recipe)
reel black pepper to taste
salt to taste
Prepare chips' base a couple of days in advance: cut the cabbage into large wedges and drop them in boiling water with a pinch of salt. Cook for about 3 minutes, until leaves color changes from violet into bluish.

Turn off, drain the cabbage and filter 100 ml of water (if it is too violet, add a pinch of baking soda to make it bluer). Cool quickly the boiled leaves in cold water, drain them well, cut them into 1,5 inch squares and keep them for the side dish. 

Chop and squeeze the crab meat, then add equal weight + 15% of rice flour (here 75 g pulp + 90 g flour), spices, spirulina and a pinch of salt; add about half the weight of the pulp  of blue water (here 35 g) then add sesame seeds.

Work vigorously for several minutes, enough to compact the dough but without giving in to the temptation to add more water, or in frying the chips will not swell. 

Form a compact blue cylinder about 10 cm long, place it in a basket lined witha  pricked baking sheet (or a white cabbale leaf) and steam over boiling water, closed by a heavy lid, for about 1 hour and a half, until the surface is shiny and gelatinous and slightly sticky to the touch. 

Leave to cool, tightly wrap the cylinder in plastic wrap and leave it to compact in the fridger for almost 24 hours. Slice it with a slicer or a potato peeler into about a hundred gossamer slices.  

Place them on two large baking trays lined with backing sheets and let them dry for a couple of hours in fan oven at 60 °C (140 °F), turning them after the first hour. Slices are ready when dry, hard and slightly curved. They can be kept for months in a tightly closed plastic bag, waiting to be fried.

Fry them, just before eating, in oil at 180 °C (350 °F); drop in the hot oil only a couple at a time because they widen a lot and puffs up in a few seconds. Drain on paper towel and serve within two hours,  or they’ll lose crispness. 

For the side dish stir-fry the boiled cabbage leaves in oil with onion, garlic and bell pepper; when the volume is a little reduced, add salt and spices and cook another 2 or 3 minutes, leaving the vegetables tasty and cruncy, not “stewed”. In the end sprinkle with abundant grated black pepper. 

For the broth boil the chicken stock with 50 g of crab meat (and, eretically, beingthe crab canned, also 4 or 5 tablespoons of its preservative liquid, which is a sum of water, salt, sugar and citric acid), sugar and peppercorns; simmer for half an hour until it is fully flavoured. Filter and measure 500 ml.

For the rice cut bacon into strips and sautè in a cast iron casserole until crispy. Remove and add oil in the pan. Brown there onion, celery, bell pepper, garlic and the white slices of spring onions; cook for a few minutes on medium heat, possibly covered, until onions and peppers are quite soft.

Remove most of the vegetsbles from the pan, leaving there a couple of spoonfuls; add the rice and toast it for two or three minutes, until it turns white. Combine in the pan tomato paste with chopped tomato and cook two minutes, then pour in the boiling broth, cover the pan with an heavy lid and cook for about 15 minutes on low heat, until the water is fully absorbed.

Short before turning off, in another pan heat the "holy Trinity with the Pope" sauté with 200 g of crab meat; cook for a couple of minutes, adding a spoonful of broth to prevent from drying out too much. Add the green slices of spring onions and the crispy bacon and cook another minute.  

Add the crab sautè to the rice and mix well with two forks to get a well seasoned and fluffy rice. Place a handful of cilantro and the butter knob on the top of the rice, cover again and leave to rest for another 5 minutes. 

Mix again the rice, spoon it into serving or individual plates, decorate with fresh coriander sprigs and one crispy chips and serve with a bowl of blue cabbage and some other chips aside. 

  • rivoli affluenti:
  • Piccola nota: chi si diletterà ad approfondire la cucina Gullah-Gheechee troverà diversi video sottotitolati in cui red rice è scritto ray rice ma si tratta di un errore: il ray rice si prepara allo stesso modo ma senza pomodoro e unendo alla tostatura del riso anche un po' di spaghettini spezzettati 
  • una interessante conferenza sull'indaco nella cultura Gullah è questo video
  • interessantissima relazione storica sulla evoluzione dei Gullah e in specifico su una famiglia di coltivatori americani di indaco con schiavi africani dell'atropologo e docente di anatomia Pollitzer: William P. Pollitzer, The Gullah People and Their African Heritage, 1999, University of Georgia Press,  ISBN 0- 8203-2783-2
  • * il primo testo che ho letto sui Gullah sono alcuni capitoli specifici su "Cucina della Low Country" , "Cucina Gullah", "Riso americano" e "Soul Food" scritti da Toni Tipton-Martin in: AA. VV., Stati Uniti. Una scoperta gastronomica, Koenemann, 1999, ISBN 3-8290-3985-9. Da qui ho tratto la foto del purloo.
  • un libro autentico e "spontaneo" sulla cucina Gullah è: Sallie Ann Robinson, Gullah Home Cooking the Daufuskie Way: Smokin’ Joe Butter Beans, Ol’ Fuskie Fried Crab Rice, Sticky-Bush Blackberry Dumpling & Other Sea Island Favorites, 2003 The University of North Carolina Press, ISBN 978-0-8078-5456-3 
  • della stessa autrice vale la pena di cercare i video, che sono semplici ma curati ed allegri, tra cui quello dove racconta del cavolo coi peperoni.
  • ** notizie  curiose sul muscadine wine: qui e qui 
  • tutte le preparazioni sono naturalmente gluten free
  • fonti immagini: 
  • foglia di indaco: qui 
  • danze africane al Gullah Festival: qui 
  • dipinto "Raccolta del riso" di Jonathan Green: qui
  • scritta in Gullah: qui
  • cibo Gullah: qui
  • campi americani di indaco nel 1739,  tessuti stesi e albero con bottiglie: qui 
  • tintori nigeriani: qui 
  • uomo con volto blu: qui 
  • bandiera: qui 
  • blue rice: qui
  • tomato red rice da: Carla Capalbo, Laura Wishburn, Best of America. Traditional Regional Recipes, Barnes & Nobles, 2002, ISBN: 0.7607-3641-3
  • benne wafers: qui
  • blue velvet cake: qui
  • muscadine wine: qui 

Commenti

  1. Che bello leggere i tuoi post ogni volta!

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  2. Grazie per questo bellissimo approfondimento che arricchisce la storia dei Gullah. L'importanza della loro cultura si legge da ogni passaggio del tuo post e la tua ricetta è proprio un omaggio a loro, Taste the world con te è ancora più ricco
    Bravissima e quelle nuvole mi sa che le proverò anche se forse non azzurre. Un abbraccio Manu

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    1. azzurre tanto così le nuvole non vengono, quindi puoi semplificarti la vita usando acqua normale e niente spirulina, tanto il sapore di granchio si sente bene lo stesso... anzi: forse anche meglio!

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  3. Praticamente Wikipedia ti fa un baffo! Mi inchino a cotanto sapere!

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    1. Ma no, basta guardarsi un po' in giro con curiosità 😊

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  4. Quanto è stato bello cercare per conoscere i Gullah!! E come sono belli quei colori nei dipinti!!! Me ne sino innamorata a prima vista anche io.

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  5. A puntate ma ce l'ho fatta ad arrivare fino in fondo hahahaha!! Sei unica, ma quante ne sai?

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    1. Io pure ho scritto a puntate, ci ho messo quasi una settimana. Non sono normale, lo so.

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  6. Come scrivevo poco fa a Silvia, io accendo il motore e vi do una cartina. Poi, il viaggio è vostro- e lo è anche la mèta e questo è proprio lo scopo della gara, di trovare nello studio personale altri spunti e portarli a maturazione con elaborazioni personali. Le ricette della cucina dei migranti, poi, sono come i figli: la mater è certa (sul pater, per fortuna, si possono fare sempre tante ipotesi :) ma poi ognuno di loro prende la propria strada. La tua si tinge di blu (di Genova, su questo sono tassativa :) :) :) e di una creatività come sempre stupefacente, nella sua coerenza concettuale e di sapori. Questo è un vero e proprio set menu, come direbbero qui, con il riso che però fa da protagonista assoluto, come da sfida. Post, come sempre, da archiviare, in cornice
    P.s. Il riso blu malese è peranakan- e qui sto;)

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    1. diciamo che non sono stata a specificare che il riso blu è eredità dell'influenza cinese sulla cucina malese ovvero appartiene alla cucina Paranakan perchè mi sembrava di aver già farcito il post a sufficienza, ma hai fatto bene a specificare, grazie.

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  7. passare da te NON é SOLTANTO sbavare dalla fame e gioire dal gusto, MA é ANCHE fare un viaggio attraverso la ricetta, mi porti sempre in luoghi fantastici. Tanto di capello!

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