Con la seconda tappa di
Inseguendo l'arte da mangiare prosegue il mio personale percorso tra arte e cucina
in cui propongo ricette ispirate all'epoca ed alla zona ritratte in una serie di nature morte di pittori famosi, quelle che ogni settimana
Uffizi da mangiare seleziona nella propria collezione e sottopone all'interpretazione di un prestigioso chef italiano (tutti i riferimenti
qui).
Oggi, puntuali dopo dieci giorni dalla pubblicazione degli Uffizi del 24 gennaio, stare alle calcagna del loro dipinto ci porta nella Firenze di inizio '600, dove operava Jacopo Chimenti, che era detto anche l'Empoli per l'origine della sua famiglia.
Il primo passo è stabilire di quale dipinto si tratti, perchè nella collezione degli Uffizi ne compaiono
due dello stesso autore: uno intitolato
Dispensa con botte, selvaggina, carne e vasellame (in altri testi riportato come
Dispensa con trancio di cinghiale, pasticcio e anatra)
e l'altro
Dispensa con piede di porco testa di vitello, tacchino, pollame e altre vivande.
Credo per un piccolo baco del sito, nonostante i numeri di inventario siano ovviamente differenti in entrambe le schede delle opere appare la descrizione del primo l'immagine del secondo. Per venirne a capo considero semplicemente che, essendo dei pendant, cioè una coppia di dipinti pensata per stare insieme, il 1624 indicato per uno sia molto probabilmente l'anno di realizzazione di entrambi. Il che li colloca tutti e due nel periodo di maturità dell'autore, che visse dal 1551 al 1640.
Il 1624 era la Firenze in cui, superata l'epidemia di tifo di tre anni prima, durante cui era mancato Cosimo II de' Medici, il Granducato era governato da reggenti in nome del figlio tredicenne Ferdinando II; vi operavano Galileo Galilei e Artemisia Gentileschi, l'Accademia della Crusca vi aveva messo a punto il suo secondo Dizionario (stampato poi a Venezia) ed era da poco permesso di accedere a cariche pubbliche e al Senato de' Quarantotto anche a feudatari e possidenti che non avessero titoli nobiliari.
In questo ambiente si muove Jacopo Chimenti, pittore apprezzato soprattutto per i suoi temi sacri ma, a quanto riportano le cronache dell'epoca, talmente goloso da realizzare volentieri nature morte ritratte dal vero e ben disponibile a farsi pagare in natura dai committenti, tanto che la sua voracità gli valse anche lo scherzoso soprannome l'Empilo, che in toscano significa "riempilo".
A
Dario Cecchini, mitico macellaio-cuoco chiantigiano, chiamato dagli Uffizi ad interpretare a suo modo la
Dispensa con piede di porco di Chimenti, cade subito l'occhio sulla "bella lombata di bistecche", che appare appesa sulla sinistra... ma sarebbe stato lo stesso avesse ammirato l'altra
Dispensa, dove fa bella mostra di sé, quasi al centro della barra a ganci, lo stesso taglio di cui ci parla nel
suo video per gli Uffizi: "inevitabilmente" una costata alla brace. D'altro canto si sa che tra lui e "la ciccia" è sempre stato amore!
Invece io, che non sono ne' toscana ne' esperta di carmi, mi lascio affascinare maggiormente da due altri soggetti: il tacchino, la cui maestosa ruota domina lo stesso dipinto di cui parla Cecchini, e il pasticcio sul tavolo dell'altra tela, ovvero la prima ricetta che mi viene in mente quando si parla di cucina nobile italiana del'600.
Se rinchiudere in uno scrigno di pasta friabile diverse carni "suolo a suolo" e decorarne la superficie con maestria è oramai percepito come un grande classico di tutte le cucine abbienti dell'Italia del tempo, il tacchino rappresenta invece una vera esclusiva novità di quelle stesse tavole.
Documenti testimoniano che i primi dieci esemplari da riproduzione arrivarono a Valencia il 24 ottobre del 1511. Provenivano dal Messico, dove i Maya, oltre a consumarne le carni, che con l'allevamento risultavano abbondanti ed economiche, ne utilizzavano le penne e le ossa in medicina, come decori di indumenti e copricapi cerimoniali e per costruire strumenti musicali.
In Italia il tacchino cominciò ad apparire sulle tavole di corte come specialità esotica dal 1525 e ben presto sostituì il più "consueto" pavone; divenne nell'arco di un secolo un animale abbastanza diffuso, visto che le tecniche di allevamento erano simili a quelle già da noi conosciute per altro pollame, ma rimase un cibo di vero lusso fino a tutto il '700.
Quando ancora si pensava che Colombo fosse sbarcato nelle Indie Orientali lo si chiamava gallo d'India, poi in alcune aree divenne dindo e in altre tacchino, probabilmente per assonanza con il suo verso, un sorta di tac-tac ripetitivo. Appare con tutti questi nomi in diversi testi del '600, come ne L'economia del cittadino in villa del marchese Vincenzo Tanara del 1644 o nel ricettario del 1662 di Bartolomeo Stefani, il cuoco dei Gonzaga.
In Italia le ricette per il tacchino per lungo tempo rimasero analoghe a quelle già testate per altri volatili, senza davvero creare pietanze che ne valorizzassero le caratteristiche specifiche, come apprendiamo dalle parole dello stesso Stefani:
Gallo d'India
La stagione più propria di questo animale è delli mesi di giugno. luglio e agosto. riuscendo in questi tempi delicati, per essere piccioli e teneri e vengono molto apprezzati nelle tavole dei Signori grandi. Si cuociono allo spiedo lardati, che così riescono buoni al gusto di ogni uno. Quando poi sono ingrossati nelli mesi di di genaro e febraro, si devono lasciare cinque o sei giorni morti nelle loro piume e pelle e, nutricati [conditi], se gli dà una cottura alla svizzera, con vino stecchi di cannella e mastice. Cotti che saranno, si levino da detto succo, si polverizzino con sale e pepe ammaccato, si lascino freddare, riuscendo grati al gusto. Si fanno parimente arosto nello spiedo: riescono ancora buoni nel forno; delle loro polpe e del petto se ne fanno bragiolette per regalar bische [guarnire]. Le cosce si possono mettere alla gradella, bagnate con aceto rosato, butiro, ovvero oglio di Toscana o d'altra qualità, perchè sia buono. Di più si fanno pasticci freddi in forma d'aquilone, lardandoli con lardoni grossi.
E certo: ultimo ma non ultimo, naturalmente uno degli utilizzi a cui pensarono i cucinieri dell'epoca era di farcirci un pasticcio!
Anche se non ho individuato testi specifici di cucina toscana antecedenti al 1624 che lo citano, sia il testo di Stefani sia il fatto che sia il tacchino sia il pasticcio siano ritratti nelle opulente dispense fiorentine dei dipinti di Chimenti mi porta a concludere che di certo questa idea era nell'aria, e che potrebbe certamente essere venuta anche al cuoco della nobile famiglia cui la coppia di tele era destinata.
Ma come si preparava un pasticcio nel '600? A noi basta seguire le istruzioni di Antonio Latini, che di esperienza in cucina di corte "all'italiana" ne aveva tanta: di origini marchigiane, fu scalco nei palazzi più nobili, dal Cardinal Barberini a Roma al Duca della Mirandola, dal Vescovo di Faenza fino al Primo Ministro del Regno di Napoli, città dove si stabilì definitivamente e dove pubblicò nel 1692 il suo trattato.
Ricostruiamo il nostro pasticcio seguendo per l'involucro le sommarie istruzioni nella ricetta del:
Pasticcio, alla Napolitana.
Piglierai Farina, Ova, Strutto, e Zuccaro; formato che havrai la Cassa del Pasticcio, vi porrai dentro gli seguenti Ingredienti [...]. Coperto, che havrai il Pasticcio, lo metterai à cuocere nel Forno, e cotto, che sarà, ci farai il suo Brodetto, con Rossi d'ova, sugo di Limone, ò altro, à beneplacito, che sarà un Pasticcio di molto gusto.
Non riporto qui la stratificazione infinita delle farciture: in questo caso ben diciassette preparazioni differenti disposte a strati sovrapposti, tra cui cito solo: vitella rifatta, piccioni a pezzi, ossa mastre, tettina bollita, salsicce spaccate, tartufi, soppressata, funghi soffritti, cannolicchi, cedronata, provola fresca, tuorli sodi e involtini di vitello soffritti.
Sono "solo" dieci, invece, gli ingredienti di un'altra ricetta, quasi tutti presenti anche nella farcitura della precedente: in questo caso vengono però miscelati tra loro e conditi tutti insieme, la glassatura della torta cotta. In questo caso parliamo del:
Pasticcio alla reale in forma di cuore.
Piglierai pezzi di vitella, di mezza libbra l'uno; li lardellerai minutamente di lardelli sottili e li potrai tramezzare con gl'infrascritti ingredienti: quarti di pollastri teneri, bocconi d'animelle di vitella, fette di prosciutto, fegatelli di polli, midolla in pezzetti, fatte sottili di ventresca, pignoli, prugnoli secchi che sieno stati prima a mollo in buon vino e soffritti. Metterai ogni cosa dentro un vaso a proposito, dandogli le sue spezierie convenienti, con un pochettino di zaffarano con il suo sale; rivolgerai ogni cosa insieme acciocché s'incorpori bene con le sue speziarie, metterai ogni cosa dentro la cassa del pasticcio e le darai la forma he ti piacerà; lo cuocerai al forno con diligenza e, cotto che sarà, lo servirai caldo con ghiaccio di zuccaro sopra.
Per valorizzare la delicatezza del tacchino con cui vorrei sostituire pollastri o piccioni, mi occorre scremare i suggerimenti di allora. Ma non voglio farne una pietanza troppo "moderna": elimino dunque arbitrariamente quasi tutte le altre carni, per lasciare il tacchino protagonista insieme a qualcosa che gli dia morbidezza, però conservo spezie ed alcuni degli ingredienti che ai Toscani di oggi forse appaiono i più curiosi e che sono in realtà ancora popolarissimi in abbinamento alla carne per altre culture di tradizione mediterranea e mediorientale.
Per orientarmi in questa semplificazione, mi ispiro alle indicazioni che dava Domenico Romoli, detto Panunto, nel suo trattato romano del 1560 in merito ai sapori che si potevano propriamente accostare a dei volatili, tenendo conto che in Italia, a differenza dei Paesi Anglosassoni e della Francia, per lungo tempo anche del tacchino si sono preferiti gli esemplari più giovani, dale carni quindi molto tenere:
Starnotti, fagianotti e pulcinelli arrosti.
I duo animaletti salvatici si arrostiranno e prepareranno al modo del pavone arrosto [...]. Quanto ai pulcinelli [...] rimettasi nel corpo il suo fegatino, un poco di lardo battuto, quattro uve passerine e un poco di pepe e cannella e una ciocca di finocchio fresco, riserrisi il buco, rifacciasi nel brodo magro, e così fasciato nella carta si cuocerà come gli altri; questo sarà buono come sarà fuor dello spiedo, così caldo messo in un piatto con aceto rosato [misto di aceto e acqua di rose], zuccaro e cannella bollito sopra. Cuoprasi e così stufato mandisi in tavola, gli altri mangisi con uva fresca o savor di visciole o salsa reale.
Potrei anche ridurre tutto alle barchiglie del Latini, altra ricetta in cui delle tartellette, farcite con vitello e midollo tritatati, spezie e pinoli legati con un mix di tuorli e limone, vengono decorate da cotte con glassa di zucchero. In ongi caso scelgo di alternare farcia miscelata a strati ben individuabili, che risultino decorativi al taglio.
Se tacchino, salumi e scrigno di frolla sono presi dai due dipinti seicenteschi, uva passa, prugne secche, spezie e zuccheri si trovano comunemente in una credenza attuale, che non assomiglia per niente alla dispensa di Chimenti ma è decisamente simile alla quella raffigurata nell'acquarello di
Eleonora, la quale coraggiosamente, anche questa volta insegue assieme a me l'ispirazione proposta delle meravigliose raffigurazioni dell'Empilo.
Ma eccoci, finalmente, a tavola. O meglio: sul tavolo di servizio della dispensa, dove si conservano i piatti pronti!
PASTICCIO DI TACCHINO ALLA SEICENTESCA
ingredienti per uno stampo di ceramica ovale da 22 x 16 cm (o per 6 cocottine da 9 cm, o per una trentina di stampini da tartelletta da 5 cm)
per la pasta:
270 g farina
135 g strutto
1 uovo grande
1 cucchiaio di zucchero
1/2 cucchiaino di sale
2 cucchiai di zucchero a velo per glassare
per il ripieno:
450 g di fesa di tacchino
350 g di prosciutto cotto in un pezzo unico
30 g di strutto (più 1 pochino per lo stampo)
1 uovo
1/2 limone bio
4 prugne secche
1 cucchiaio di uva passa
1 cucchiaio di pinoli
1/2 bicchierino di vino liquoroso (tipo marsala)
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaino di erbe miste tritate: timo, maggiorana, erba cipollina, aneto
1 cucchiaino di spezie intere miste: scorza di cannella, 1 chiodo di garofano, 5 grani di pepe bianco, 4 semi di coriandolo
1 bustina di zafferano in polvere
noce moscata
sale
Preparare la pasta mescolando prima sale e zucchero alla farina setacciata, poi unendo lo strutto a fiocchetti e l'uovo sbattuto e lavorando poi brevemente sul la spianatoia per compattare l'impasto, unendo 1 o 2 cucchiai di acqua freddissima se serve. Dividerlo in due palle, una di 2/3 e l'altra di 1/3, avvolgerle nella pellicola e tenerle in frigo per almeno un'ora.
Tagliare le prugne a pezzettini e metterle a bagno, insieme all'uvetta, nel vino diluito con altrettanta acqua tiepida, in modo che la frutta si gonfi.
Passare al tritacarne 250 g di tacchino insieme a pari peso di prosciutto; tagliare il resto del tacchino e del prosciutto a fette strette e sottili.
Unire alle carni trite le erbe, il succo e la scorza del limone grattugiata fine. Pestare le spezie in un mortaio ed unire poi una gratta di noce moscata.
Fondere appena 30 g di strutto, spegnere ed unirvi le spezie, mescolare bene e condirvi la carne, unendo anche l' uovo sbattuto (ma tenerne da parte 2 cucchiai), la frutta ed il suo liquido di ammollo, in cui vanno sciolti 2/3 dello zafferano. Salare e mescolare tutto per bene.
Stendere i 2/3 della pasta allo spessore di 3 o 4 mm e foderare lo stampo, prima leggermente unto con lo strutto, lasciando sbordare un po’ la pasta e sigillando bene le eventuali giunture.
Coprire il fondo con un terzo delle fettine di tacchino e prosciutto, coprire con uno terzo della carne trita, premendo bene perchè non restino bolle d'aria, e ripetere gli strati fino ad arrivare 1 cm sotto l’orlo dello stampo.
Stendere l'altra porzione di pasta e coprire bene la farcia, infilandone i bordi tra la sfoglia ed il ripieno; riportare i bordi esterni sopra al “coperchio” di pasta sigillando bene e lavorandoli come un cordoncino. Forare al centro creando un camino di circa 2 cm da cui possa uscire il vapore.
Dai ritagli di pasta ricavare un cordoncino, da fissare attorno al foro, e altri motivi decorativi. Spennellate la superficie con l'uovo rimasto, diluito con un goccio di acqua in cui si è sciolto il pizzico di zafferano rimasto (io ho ceduto alla tentazione di versare l'uovo avanzato nel camino ma non va fatto perchè cuocendo tappa lo sfiato).
Cuocere in forno statico a 180 °C per circa 30 minuti, poi abbassare a 160 °C e cuocere per altri 50 minuti circa (per le cocotte 40, per le tartellettine ne bastano 20).
Lasciar freddare nello stampo. Se è di terracotta o ceramica lo si può portare in tavola anche senza sformare (io l'ho lasciato nella terrina perchè per le foto ho dovuto tagliare il pasticcio ancora tiepido).
Secondo i concetti estetici dell'epoca, l'aspetto dorato della crosta, tra uovo e zafferano, era sufficiente per conferire al pasticcio il rango di piatto "da ricchi". Ma possiamo esagerare nel lusso, patinandolo con una glassa dolce quando è ben freddo: sciogliere lo zucchero a velo in 2 cucchiaini di acqua, spennellare la superficie del pasticcio che si vuole glassare e lasciar asciugare.
E' più buono dopo un riposo di qualche ora, meglio ancora il giorno dopo; nel caso delle monoporzioni, che non vanno affettate e a cui quindi non serve compattarsi, sono ottime
anche calde o
tiepide. Nascendo come una preparazione "da credenza", il pasticcio intero si conserva tranquillamente un paio di giorni. - rivoli affluenti:
- Benporat
Claudio, Storia della gastronomia italiana, Mursia Editore,
1990 (da cui è tratta la citazione del Pasticcio alla Napolitana)
- Fabbri
Dall’Oglio Maria Attilia, Il trionfo dell’effimero. Lo sfarzo
e il lusso dei banchetti nella cornice fastosa della Roma barocca.
Viaggio nell'evoluzione del gusto e della tavola nell’Italia fra Sei
e Settecento, R&A, 2002, ISBN
88-87525-03-X
- Faccioli Emilio
(cura), L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati
sulla civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo, Einaudi Editore, 1987 e 1992, ISBN 88-06-59880-5 (da cui è tratto il brano del Pasticcio Reale di Stefani e quello degli arrosti di Romoli)
- Flandrin
Jean-Louis, "I tempi moderni" in: Flandrin Jean-Louis, Montanari Massimo (cura), Storia dell’alimentazione,
Editori Laterza, 1996, ISBN 88-420-5347-3
- Veca Alberto, "Immagini del cibo nell'arte moderna", in Flandrin, Montanari, idem
- mentre l'immagine di Dispensa con piede di porco è qui ripresa dalla scheda degli Uffizi sopra menzionata, quella di Dispensa con botte viene da qui
- La stessa immagine con la botte, in bianco e nero, è riprodotta anche all'interno del testo citato a cura di Flandrin, la cui didascalia recita: Le raffigurazioni dell'opulenza e della varietà dominano in questo di Empoli: volatili piumati e spennati, tagli di carne, insaccati e formaggi pendono da una trave sopra una tavola, coperta in parte da una tovaglia e ricca di piatti già confezionati e toccati. Jacopo Chimenti, Dispensa (1624).
- la foto di Dario Cecchini è presa qui
Mito! Mi piacciono un sacco questi excursus storici accompagnati dal loro piatto.
RispondiEliminaComplimenti per l'idea..
Una sola cosa mi chiedo: l'eventuale glassatura finale con lo zucchero a velo, non rende l'involucro troppo dolce, per i nostri gusti attuali?
Giulietta se noti c'è zucchero sia nel guscio che nella farcitura perchè, se pur qui ridotto rispetto alle dosi dell'epoca, era considerata una spezia lussuosa, che si doveva dunque sentire e vedere anche nei patti salati. Per la verità il palato di allora ancora non faceva distinzione tra preparazioni dolci e salate, che si separarono molto più tardi, e qui ricalco anche visivamente quello che nella prima metà del Seicento era considerato un aspetto lussuoso ed appetitoso. La glassa comunque è pochissima nel mio caso, e messa solo sulla parte centrale della superficie, quindi non sufficiente a modificare il gusto del pasticcio nel suo insieme. In ogni caso si può sempre omettere.
EliminaBellissimi sia il post che la ricetta...mi sa che la proverò, solo prugne non mi convincono particolarmente: una mela a dadini secondo te le può sostituire?
RispondiEliminala mela fresca è acida, la prugna secca è dolce quindi ti direi, piuttosto, di sostituire le prugne con un altro po' di uvetta. In verità ti consiglierei di provare le prugne, che qui danno il tocco dolce senza trasmettere spiccatamente il loro sapore. Meno, per dire, del tajine marocchino di agnello e prugne col miele che avevi assaggiato, dove erano più abbondanti e molto sottolineate dal miele.
EliminaChe fascino! Il pasticcio che hai realizzato a regola d’arte è una vera tentazione 😋
RispondiEliminail fascino secondo me sta proprio nella storia che racchiude, al di là della realizzazione 😉
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