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il senso giapponese del legame tra cibo e natura: Riserva San Massimo e un risotto alle patate dolci

riso pronto da mietere

Qualche settimana fa, dopo il post sullo tsukimi e sulla festività giapponese legata alla raccolta del riso, mi era venuta curiosità di verificare come avvenisse la stessa mietitura in Italia. Per un grande colpo di fortuna e per la grande disponibilità di chi mi ha accolto ho potuto parteciparvi in diretta in uno degli scenari più incredibili che si possano immaginare a pochi chilometri da Milano: Riserva San Massimo.
percorso tra i campi dorati

All'interno di questa riserva naturale di oltre 800 ettari, a sua volta parte del Parco della Valle del Ticino, i campi in cui viene coltivato con tecnologie a basso impatto ambientale riso di altissima qualità nelle varietà Carnaroli e Rosa Marchetti, sono alimentati da fontanili e risorgive naturali e circondati da boschi, frutteti autoctoni e brughiera, dove trovano il loro habitat naturale caprioli, volpi, aironi e molte specie animali e vegetali che contribuiscono alla conservazione della biodiversità.
boschi e canali inframmezzati ai campi

Per la visione giapponese della vita, dell'alimentazione e del rapporto tra uomo e natura una visione imprenditoriale come questa è davvero un modello, ma credo che lo debba rappresentare oggi anche per l'Occidente, in cui sta per fortuna crescendo la sensibilità nei confronti di stili di vita sostenibili e di una autentica qualità degli alimenti.
chicchi di riso

E' una vera gioia ora rituffarsi nelle immagini della Riserva e dei sue dorate distese di riso per la sensazione di naturale e rispettosa fusione tra campi coltivati e natura selvaggia del contesto, testimonianza immediata del rispetto profondo per la terra, coltivata e non da parte del risicultore. Ed è un piacere farlo ora che il clima si è fatto decisamente autunnale e servire in tavola fumanti piatti di riso diventa particolarmente invitante.
il perfetto risotto alla parmigiana servitomi in Riserva

Avendo vissuto la risaia con sentimento istintivamente giapponese, la mia sfida a questo punto è di trovare un legame tra i due mondi anche in un piatto. Dalla seconda metà dell'800 in poi i Giapponesi siano venuti in contatto sempre più ampiamente con ingredienti, tecniche di culinarie ed abitudini alimentari occidentali, tanto da creare una cucina yoshoku (in cui si "importano" prodotti o tecniche straniere, ad esempio la potato sarata) ed alimentarne una wafu (piatti cucinati in Occidente "in stile giapponese", tipo i teryaki buger).

Per quanto riguarda il riso, però, l'adozione di risi e costumi stranieri è sempre stata molto difficile: il riso viene concepito quasi solo in purezza, accompagna altre portate miscelandosi raramente ad esse, viene cucinato solo per assorbimento ed ingredienti aggiuntivi compaiono in modo molto misurato nei takikomi gohan e solo se tipicamente di stagione, come in questo periodo le castagne nel kuri gohan,  le patate dolci nel satsumaimo gohan o la zucca nel kabocha gohan.

Addirittura i donburi (ciotole di riso bianco con sopra altri ingredienti) nacquero solo in epoca Edo (1603-1867), quando si serviva riso sormontato da anguilla brasata come spuntino da teatro, gustoso ma semplice da mangiare; si diffusero un po' in epoca Meji (1868-1912) ma rimasero poco apprezzarti, utilizzati prevalentemente come makanai, pasto per i lavoratori della ristorazione da comporre a fine giornata con avanzi e invenduto.

Figuriamoci dunque modificare la cottura del riso perchè assorba altri aromi e sfruttarne l'amido per legarlo in un velo cremoso invece di lasciare i chicchi ben separati... come è venuto in mente a me decidendo di usare lo squisito Carnaroli di Riserva San Massimo per un risotto!
titolare e tecnico a confronto ai margini di un campo

Il mio piatto, un po' come questo minestrone, sta a cavallo tra wafu e yoshoku,: ignorando il fatto che sto cucinando all'estero (rispetto al Giappone!) riso e metodo tradizionali italiani accolgono ingredienti assolutamente giapponesi in sostituzione dei classici brodo e vino, e per verdura la patata dolce rappresenta l'autunno in modo molto nipponico, e contribuisce con la sua dolcezza a far virare il gusto decisamente lontano dall'Italia.

Però sulla parte dei latticini, ovvero burro e formaggio che per tradizione italiana donano grassa cremosità e saporito umami al risotto, mi ferma la storica diffidenza giapponese nei loro confronti; opto per l'umami di funghi, soia e miso, mentre per la cremosità, oltre all'amido del riso, mi aiutano le patate dolci, grattugiate invece che lasciate a dadini giapponesi. Il gasso invece è del quasi del tutto eliminato: in Giappone non se ne sente praticamente mai la necessità.

Il risultato è spettacolare: sufficientemente "distintivo" per far sentire a casa un Giapponese negli aromi e familiare ad un Italiano per le consistenze, ma sufficientemente "esotico" per apparire diverso dalla propria cultura ad entrambi. Il passo successivo, trovare un modo goloso perchè la fusione di riso italiano e gusto giapponese risultino perfettamente "naturali" ad un palato nipponico, credo mi sarà parecchio più difficile!

RISOTTO FILOGIAPPONESE ALLE PATATE DOLCI E FUNGHI
ingredienti per 4 persone:
280 g di riso Carnaroli autentico Riserva San Massimo
4 funghi shijtake secchi
160 g di patata dolce, al netto di bucce e scarti
1 spicchio di aglio
780/800 ml circa di brodo dashi (kobudashi per un piatto vegetariano)
1 cucchiaino colmo di pasta di miso chiaro*
1 cucchiaio circa di salsa di soia*
4 cucchiai di sake
1 cucchiaino di mirin
1 ciuffetto di prezzemolo
1/2 cucchiaio di semi di sesamo neri
1 cucchiaio di olio di arachidi
pepe sansho
Mettere a bagno i funghi in 100 ml di brodo dashi caldo per 20 minuti. Grattugiare grossolanamente la patata dolce e finemente l'aglio.

Affettare i funghi ammorbiditi eliminandone i gambi, filtrare il brodo d'ammollo ed unirlo al resto del dashi. Separare i gambi dalle foglie di prezzemolo e tritare queste ultime, tenendo i gambi.

Scaldare l'olio in un tegame dai bordi alti, unire aglio, gambi di prezzemolo, patate e funghi e far insaporire un paio di minuti.

Versare nel tegame il riso e farlo tostare qualche minuto fino a che si è ben insaporito.

Versare sake e mirin e lasciar sfumare, quindi unire qualche mestolo di brodo dashi e mezzo cucchiaio di salsa di soia; cuocere a fuoco medio, mescolando di tanto in tanto ed unendo altro brodo a mano a mano che si asciuga.

Quando il riso è morbido ma ancora al dente levare i gambi di prezzemolo, sciogliere il miso nell'ultima mestolata di dashi e versare nel tegame; regolare di sapidità unendo eventualmente ancora un goccio di salsa di soia e spegnere.
Spolverizzare con il prezzemolo tritato, i semi di sesamo e un pizzico di pepe sansho, dividere nei piatti individuali e servire.
Come direbbero in Riserva San Massimo: la qualità di questo riso è "frutto della ricchezza naturale della nostra biodiversità".
  • rivoli affluenti:
  • la magia della Riserva San Massimo è difficile da racchiudere tutta in un solo post. Temo servirò riso a profusione nel blog, nel prossimo futuro...
  • (* lo shiromiso non contiene glutine ma in caso di celiachia meglio controllare la confezione; allo stesso modo va usata salsa tamari certificata al posto della soia per un piatto gluten free)

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