Difficile recuperare le radici. Quando si nasce in una famiglia che fonde origini molto diverse e si cresce lontani dai luoghi di ciascuno, finisce che in casa si parla italiano perchè dalla miscela di dialetti differenti esce un idioma spezzatino, che massacra parole e pronunce senza essere alla fine altro che una lingua buffa e sempre sbagliata.
Così capita poi di comprendere perfettamente ciascun dialetto, di prendere perfino la cadenza locale quando si trascorrono alcune ore con persone dall'accento marcato, ma di non essere in grado di rispondere loro correttamente in uno di quei dialetti, tanto amati perchè parte dell'infanzia e di un ramo della famiglia ma che restano purtroppo solo una parte teorica delle proprie radici.
A me questa inadeguatezza linguistica attutisce in qualche modo il senso di appartenenza. Nell'arco di una generazione in famiglia è successo, nel mio piccolo, quello che a livello nazionale è oramai un fenomeno storico. E nonostante sia stato sacrosanto il processo di alfabetizzazione ed unificazione del linguaggio, partito con l'Unità d'Italia ed esploso nel dopoguerra grazie a strumenti potentissimi come cinema e televisione, mi sembra un delitto che per strada si siano perse le tipicità locali.
Rimpiango che succeda anche a me come alle generazioni più recenti, che parlano un buon italiano ma non sono in grado con la stessa naturalezza di chiacchierare nelle lingue dei loro nonni (e nel mio caso nemmeno in quella del mio luogo di nascita!).
Peccato che la consapevolezza della cultura profonda, quella nascosta nelle radici locali di ogni aspetto della vita, sia emersa in questi anni per quanto riguarda la cucina ma molto meno per l'aspetto lingustico e che, dove qui sorgono iniziative per il recupero del dialetto, spesso la cosa parta da un approccio campanilista volto a differenziare chi ha nascita locale da chi è "straniero".
Adoro dunque tuffarmi nelle mie "lingue di famiglia" appena posso, soprattutto perchè non sono in grado di parlarne correttamente nessuna ed ho neccessità di alimentare il mio senso di appartenenza a tutte le mie partie e di nutrire la mia volontà di memoria affondando proprio nelle radici di quelle culture locali che ho conosciuto solo in superficie.
Ecco perchè mi folgorano i libri di cucina scritti in dialetto o, come in questo caso, nell'italiano "popolare" di una contadina trentina della generazione dei miei bisnonni. Quinto Antonelli, storico e responsabile dell'Archivio della Scrittura Popolare per il Museo Storico del Trentino, dopo aver curato per un decennio la pubblicazione di Scritture di Guerra si è dedicato ai Ricettari della Gente Comune, tra cui mi è stato praticamente indispensabile adottare quello di Felicita Simon.
Nata nel 1870 a Pieve di Primero, la contadina Felicita sposa un commericante di vino di origine trentina e, prima di trasferirsi con lui in Baviera, raccoglie oltre 400 ricette da portare con sè come "dote" per cucinare nella kellerei (trattoria) che il marito ha aperto a Augsburg. Tradizioni di famiglia ma anche suggerimenti di vicine e conoscenti, trascrizioni da manuali di cucina, segreti ricevuti in dono dalla sorella maggiore che era cuoca d'albergo e lezioni imparate dall'Angelina, la donna di servizio della famiglia del marito.
Mi sono tanto riconosciuta nel suo modo di imparare a cucinare, nella passione messa in questo suo raccogliere con cura le ricette più diverse, nella consapevolezza della ricerca di radici e mi sono talmente strutta nella sua lingua dolce e pratica e nella sua grafia, tanto simile a quella dei miei nonni bellunesi, che ho preso l'abitudine di sfogliare ogni tanto il suo ricettario come una forma di arcana preghiera di ringraziamento ai lari.
Non posso dire di parlare quella lingua di montagna, che sulle mie labbra risulta uno spezzatino informe, ma la riconosco tra le ricchezze che tenere e sapienti divinità della famiglia mi hanno indirettamente tramandato. E quando sono in quelle zone e vivo per qualche ora in mezzo a quei suoni mi sento un pochino più felice.
Dunque uno spezzatino scelgo tra le ricette di Felicita, questa in specifico suggerita da Angelina; è il cibo che oggi, neve e nebbia e aria bianca fuori dalla finestra, mi fa sentire proprio a casa.
Stufà di manzo con pocio Artigianeli (*)
Sitaliano apepezzi grandi il man[zo] selimetono in tecchia con aqua fre[dda] che copre tutta la carne, poi sitalia fino presemolo e cipola fina rape giale senelo sesivuole folie di verza, si pesta tuto asieme si unisse tuto nela pad[ella] pure condei pezzi di pomo d'oro buro, sale peppe, alcune pomele cinq[?] con del lardo pestato fino, poi sicopre è silascia bolire fin che l'acua è tuua consumats poi siprende su la carne, e nel tegame sifrige un po' di farina quando è rossa vi siagiungerà acqua freda anche la carne che siabene coperta d'aqua e dinuovo silascia bolire finche siriduce aun pocio in ristreto.
Spezzatino di manzo del Ricettario Dotale
ingredienti per 4 persone:
700 gr. di manzo da spezzatino (qui spinacino)
250 gr. di foglie di verza (qui miste a cime di rapa)
1 grossa cipolla
2 piccole carote
1 gambo di sedano
2 pomodori maturi (o 1 bicchiere di polpa in scatola scolata)
15 gr. di lardo in fette spesse 3 mm.
1 cucchiaio ben colmo di farina
10 rametti di prezzemolo
4 foglie di salvia (aggiunta mia)
10 bacche di pepe nero
sale grosso
Ridurre la carne a dadi da 3 cm.; tritare insieme grossolanamente carota, cipolla, sedano, verza, prezzemolo e salvia; tagliare i pomodori a cubetti senza eliminarne l'acqua; tritare finemente il lardo e metterne da parte un cucchiaino.
Mettere in un tegame di coccio la carne insieme con gli altri ingredienti preparati, le bacche di pepe ed una presa di sale, mescolare bene il tutto quindi coprire a filo con acqua fredda.
Mettere su fuoco dolce, portare a leggero bollore e cuocere coperto, rimestando ogni tanto, fino a che la verdura si è praticamente disfata, la carne è tenerissima e si sfalda quasi solo a guardarla ed il liquido si è ridotto a circa un dito. Ci vorranno grosso modo tre ore.
Sciogliere il lardo tenuto da parte in un tegamino e tostarvi la farina a fuoco deciso, rimestando continuamente fino ad ottenere un composto ben dorato.
Unire la farina allo spezzatino e cuocere ancora una decina di minuti, in modo che il fondo si asciughi ed ispessisca e l'aroma della farina tostata si leghi perfettamente al tutto, se serve regolare di sale e servire, sia caldo che tiepido.
(* Artigianeli è probabilmente il cognome della famiglia da cui Angelina ha imparato la ricetta, mentre per il resto: pocio = sughetto, tecchia = tegame, rape giale = carote, senelo = sedano, pomelo... non lo so!) Felicita, per la cornaca, è la donna alla finestra nella foto di copertina.
Così capita poi di comprendere perfettamente ciascun dialetto, di prendere perfino la cadenza locale quando si trascorrono alcune ore con persone dall'accento marcato, ma di non essere in grado di rispondere loro correttamente in uno di quei dialetti, tanto amati perchè parte dell'infanzia e di un ramo della famiglia ma che restano purtroppo solo una parte teorica delle proprie radici.
A me questa inadeguatezza linguistica attutisce in qualche modo il senso di appartenenza. Nell'arco di una generazione in famiglia è successo, nel mio piccolo, quello che a livello nazionale è oramai un fenomeno storico. E nonostante sia stato sacrosanto il processo di alfabetizzazione ed unificazione del linguaggio, partito con l'Unità d'Italia ed esploso nel dopoguerra grazie a strumenti potentissimi come cinema e televisione, mi sembra un delitto che per strada si siano perse le tipicità locali.
Rimpiango che succeda anche a me come alle generazioni più recenti, che parlano un buon italiano ma non sono in grado con la stessa naturalezza di chiacchierare nelle lingue dei loro nonni (e nel mio caso nemmeno in quella del mio luogo di nascita!).
Peccato che la consapevolezza della cultura profonda, quella nascosta nelle radici locali di ogni aspetto della vita, sia emersa in questi anni per quanto riguarda la cucina ma molto meno per l'aspetto lingustico e che, dove qui sorgono iniziative per il recupero del dialetto, spesso la cosa parta da un approccio campanilista volto a differenziare chi ha nascita locale da chi è "straniero".
Adoro dunque tuffarmi nelle mie "lingue di famiglia" appena posso, soprattutto perchè non sono in grado di parlarne correttamente nessuna ed ho neccessità di alimentare il mio senso di appartenenza a tutte le mie partie e di nutrire la mia volontà di memoria affondando proprio nelle radici di quelle culture locali che ho conosciuto solo in superficie.
Ecco perchè mi folgorano i libri di cucina scritti in dialetto o, come in questo caso, nell'italiano "popolare" di una contadina trentina della generazione dei miei bisnonni. Quinto Antonelli, storico e responsabile dell'Archivio della Scrittura Popolare per il Museo Storico del Trentino, dopo aver curato per un decennio la pubblicazione di Scritture di Guerra si è dedicato ai Ricettari della Gente Comune, tra cui mi è stato praticamente indispensabile adottare quello di Felicita Simon.
Nata nel 1870 a Pieve di Primero, la contadina Felicita sposa un commericante di vino di origine trentina e, prima di trasferirsi con lui in Baviera, raccoglie oltre 400 ricette da portare con sè come "dote" per cucinare nella kellerei (trattoria) che il marito ha aperto a Augsburg. Tradizioni di famiglia ma anche suggerimenti di vicine e conoscenti, trascrizioni da manuali di cucina, segreti ricevuti in dono dalla sorella maggiore che era cuoca d'albergo e lezioni imparate dall'Angelina, la donna di servizio della famiglia del marito.
Mi sono tanto riconosciuta nel suo modo di imparare a cucinare, nella passione messa in questo suo raccogliere con cura le ricette più diverse, nella consapevolezza della ricerca di radici e mi sono talmente strutta nella sua lingua dolce e pratica e nella sua grafia, tanto simile a quella dei miei nonni bellunesi, che ho preso l'abitudine di sfogliare ogni tanto il suo ricettario come una forma di arcana preghiera di ringraziamento ai lari.
Non posso dire di parlare quella lingua di montagna, che sulle mie labbra risulta uno spezzatino informe, ma la riconosco tra le ricchezze che tenere e sapienti divinità della famiglia mi hanno indirettamente tramandato. E quando sono in quelle zone e vivo per qualche ora in mezzo a quei suoni mi sento un pochino più felice.
Dunque uno spezzatino scelgo tra le ricette di Felicita, questa in specifico suggerita da Angelina; è il cibo che oggi, neve e nebbia e aria bianca fuori dalla finestra, mi fa sentire proprio a casa.
Sitaliano apepezzi grandi il man[zo] selimetono in tecchia con aqua fre[dda] che copre tutta la carne, poi sitalia fino presemolo e cipola fina rape giale senelo sesivuole folie di verza, si pesta tuto asieme si unisse tuto nela pad[ella] pure condei pezzi di pomo d'oro buro, sale peppe, alcune pomele cinq[?] con del lardo pestato fino, poi sicopre è silascia bolire fin che l'acua è tuua consumats poi siprende su la carne, e nel tegame sifrige un po' di farina quando è rossa vi siagiungerà acqua freda anche la carne che siabene coperta d'aqua e dinuovo silascia bolire finche siriduce aun pocio in ristreto.
Spezzatino di manzo del Ricettario Dotale
ingredienti per 4 persone:
700 gr. di manzo da spezzatino (qui spinacino)
250 gr. di foglie di verza (qui miste a cime di rapa)
1 grossa cipolla
2 piccole carote
1 gambo di sedano
2 pomodori maturi (o 1 bicchiere di polpa in scatola scolata)
15 gr. di lardo in fette spesse 3 mm.
1 cucchiaio ben colmo di farina
10 rametti di prezzemolo
4 foglie di salvia (aggiunta mia)
10 bacche di pepe nero
sale grosso
Ridurre la carne a dadi da 3 cm.; tritare insieme grossolanamente carota, cipolla, sedano, verza, prezzemolo e salvia; tagliare i pomodori a cubetti senza eliminarne l'acqua; tritare finemente il lardo e metterne da parte un cucchiaino.
Mettere in un tegame di coccio la carne insieme con gli altri ingredienti preparati, le bacche di pepe ed una presa di sale, mescolare bene il tutto quindi coprire a filo con acqua fredda.
Mettere su fuoco dolce, portare a leggero bollore e cuocere coperto, rimestando ogni tanto, fino a che la verdura si è praticamente disfata, la carne è tenerissima e si sfalda quasi solo a guardarla ed il liquido si è ridotto a circa un dito. Ci vorranno grosso modo tre ore.
Sciogliere il lardo tenuto da parte in un tegamino e tostarvi la farina a fuoco deciso, rimestando continuamente fino ad ottenere un composto ben dorato.
Unire la farina allo spezzatino e cuocere ancora una decina di minuti, in modo che il fondo si asciughi ed ispessisca e l'aroma della farina tostata si leghi perfettamente al tutto, se serve regolare di sale e servire, sia caldo che tiepido.
- rivoli affluenti:
- Felicita Simon, Ricettario dotale, Agorà Libreria Editrice. La ricetta dello stufà col pocio è a pagina 115.
L'idea di un ricettario da portare in dote mi riesce struggente: un po' come quando lessi "La mia terra incantata" di Isabelle Allende, che ammetteva di ricordare la sua terra natia con il filtro tipico della lontananza degli esuli, che le permetteva di rimuovere i grigi e di evidenziare solo i colori brillanti.
RispondiEliminaLa mia lingua, comunque, è ancora più spezzatino della tua: neppure io parlo il dialetto della mia terra di nascita, ho una cadenza romana imbastardita da vocali aperte (tre, me, sarebbe) che tradiscono comunque le mie origini varesine e sento forte il richiamo della Sardegna, del Veneto e, naturalmente, della Svizzera italiana.
Forse un albero che ha radici così ramificate ha una linfa più ricca di uno che beve solo dal suolo su cui è cresciuto?
Mi piace pensare che sia così.
è la stessa scusa che accampo io: non so parlare nessun dialetto ma ne capisco molti, non ho (o quasi) tradizioni gastronomihce di famiglia ma coltivo quelle di tutto il mondo... A volte funziona pure!
EliminaNon ti commento, ma ti leggo sempre. Anzi, quando vedo che hai pubblicato mi accomodo meglio sulla sedia e apro il tuo post.
RispondiEliminaCIAO
ma che bella cosa mi hai detto!!! Grazie...
Elimina"Mi sembra un delitto che per strada si siano perse le tipicità locali"
RispondiEliminaSottoscrivo.
Non avresti potuto dirlo meglio!
sì ma... tu... in che lingua lo sottoscrivi?!
EliminaBella domanda!
EliminaBellissimo post, condivido l'importanza delle tipicità intesa per unire e non per dividere. Oggi lo spezzatino ci vorrebbe proprio!
RispondiEliminabe', vedo che in questa botta di inverno anche tu con lepre e polenta non ti sei fatta mancare niente... Grazie, la tipicità per unire è un concetto che mi piace troppo!
EliminaHo ancora i brividi, il tuo post, bellissimo peraltro mi ha proiettato avanti di 20 anni quando con ogni probabilità mio figlio vivrà questa tua esperienza, figlio di gente del sud, che vive al nord ma non in un luogo preciso dove mettere le proprie radici, in luoghi sempre differenti. Già adesso che ha 4 anni ha cambiato 3 residenze e parla un italiano che è un po' lombardo, un po' campano e tanto strano da far sorridere...almeno però anche noi gli avremo regalato l'opportunità di conoscere le tradizioni di questa terra meravigliosa che è la nostra bella Italia, fatta di persone straordinarie da nord a sud...isole comprese....a presto.
RispondiEliminaGioppa
un figlio globe trotter con genitori intelligenti... non c'è niente di meglio!
EliminaCiao...è stato un piacere conoscerti ieri sera e come promesso ti ho raggiunta qui, nel tuo spazio, nei tuoi racconti, nel tuo mondo fatto di piacevoli storie, viaggi e ricette. Come ti raccontavo, il paesino in cui abitiamo permette ai nostri figli di assaporare la lingua di una volta, quella delle vecchie corti, dell'osteria dei nonni ed è bello sentire i bambini di oggi utilizzare qualche parola di un tempo... Buona giornata e buona continuazione, Carolina
RispondiEliminaimpazzisco per i bimbi che sanno il dialetto, li invidio da morire!
EliminaE' stato un piacere anche per me, ho la sensazione che ci incroceremo di nuovo...