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una tradizione... diversa

La scelta affascinante ma (per me) complicata di MTC per il mese di gennaio è quella dei pici, ricetta proposta da Patty del blog Andante con gusto. Il tema sottinteso al tirare la pasta a mano secondo le regole è fondamentalmente l'interpretarne il condimento in chiave territoriale, riscoprendo quanto ingredienti "poveri", se utilizzati con la tradizionale sapienza contadina locale, possano quasi con nulla riempire un piatto di gusto e di soddisfazione.

Non è scontato però che il luogo da cui deve scaturire questa idea sia per forza quello di residenza... Nel mio caso vivo in un territorio con una lunga storia di agricoltura povera e di alimentazione stentata, come avevo già raccontato in precedenza, quindi perfettamente adatto a fornire spunti per il tema del mese, ma proprio per questo gli ingredienti che si prestano a diventare "condimento" di tradizione sono davvero molto scarsi. 


Forse anche per questo in un'economia di pura sussistenza non c'è praticamente traccia di pasta, che richiede di per sé un "sugo"... Fino alla fine dell'800 qui dominava la cultura della zuppa, in cui finiva qualsiasi cosa fosse commestibile. Come piatti asciutti ci si cibava quasi solo di polenta e riso, che potevano essere aromatizzati con una limitatissima quantità di altri ingredienti, quasi più una dichiarazione di intenti che un condimento vero e proprio. 

La volontà di variare un piatto altrimenti sempre uguale a se stesso portava ad insaporire la polenta, il pane giallo o il riso destinati all'intera famiglia con un paio di pescetti di lago secchi, un pugno di erbe, una manciata di verdure dell'orto, un mestolino di carne poverissima (i bruscitt della mia puntata precedente dell'MTC, ritagli
 di carne di manzo ricavati dagli scarti dei pellami delle concerie, la büséca o minestra di trippe, in periodo di macellazione la casöla, stufato di orecchie cotiche e zampetti di maiale cotti con le verze), una cucchiaiata di formaggina fresca o una fettina di formaggio stagionato. 

Ogni tanto apparivano sulla tavola contadina anche gli gnocchi (di solito conditi con burro e salvia), ma di pasta, fresca o secca che fosse, praticamente mai nemmeno l'ombra... Addirittura l'antica parola lagane, che nel resto d'Italia indicava le lasagne, nel Varesotto diventa lagann e si riferisce alle castagne d'acqua, che crescevano abbondanti nel lago di Varese.


I lagann venivano consumati freschi a fine estate o essiccati per l'inverno e nel Varesotto sono stati un alimento molto popolare fino a circa un secolo fa; poi l'inquinamento del lago ed i mutati costumi alimentari l'hanno fatto sparire. La prima tentazione per i pici dell'MTC, dunque, è stata proprio quella di un abbinamento con le castagne d'acqua... sia per il nome (!!!), sia per il fatto che questo frutto, qui oramai estinto, è ancora molto diffuso in Asia, il mio continente del cuore!

Ad Oriente mi portavano anche il legame a doppio filo con la Cina sul tema pasta (qualcuno immaginava che proprio ai Cinesi se ne dovesse l'invenzione, che ne avrebbero poi trasmesso l'arte a noi Italiani attraverso Marco Polo...), come pure la mia propensione ad orientalizzare qualsiasi cosa, tanto che a sentir parlare dei pici senesi subito mi sono venuti in mente gli udon.

Si tratta di una pasta giapponese grossomodo di identico formato, ingredienti e lavorazione rispetto ai pici, che da essi differisce quasi solo perché l'impasto artigianale non viene lavorato con con le mani ma con i piedi. Appena spifferata questa mia tentazione tra gli appassionati dell'MTC, ovviamente è nato un apposito, bellissimo post , a cui ho contribuito fornendo la ricetta e che ha parzialmente soddisfatto la mia insaziabile sete d'Oriente. 

Il mio problema di definire cosa possa io intendere per "locale" e "contadino" è rimasto, però, perché non ho tradizione di pasta nel Varesotto e di conseguenza neppure di suoi condimenti, ne' poveri ne' ricchi! Ecco dove sta la complicazione... Per contro, inventarmi una ricetta usando le castagne d'acqua come prodotto di tradizione mi avrebbe fatto confrontare con un'ingrediente umile e di sicuro utilizzo contadino ma che ora non posso più considerare del territorio. 

Tornando dunque da capo ai pici, sono ripartita dai suoi condimenti toscani tradizionali più "semplici", in specifico l'aglione e le briciole, ed ho provato a verificare cosa di altrettanto "elementare", povero ed aromatico esistesse eventualmente in una cultura contadina di tradizione locale a me più conosciuta rispetto a quella toscana. 

E mi sono resa conto che non facevo altro che ritrovarmi in Giappone, dove esiste una meravigliosa versione di udon... condita praticamente con niente!

Un contadino medio giapponese del secolo scorso aveva poco a disposizione in dispensa, a parte il riso: salsa di soja, pesce ed alghe secchi, qualche verdura dell'orto, a volte una manciata di farina. E come ogni saggezza popolare derivata dalla necessità anche le sue ricette, sia d'estate che d'inverno, sapevano bene come usare questi pochi ingredienti per sostenere e rallegrare la famiglia. 

Così, visto che i pici sono tutti italiani ma in generale la pasta, tra Italia Giappone e Cina, di fatto non conosce confini e ha una sua radicatissima tradizione in quasi tutti i continenti... con grande naturalezza si rivede il concetto di "condimento" e nasce spontaneamente per questo MTC un'insolita "pastasciutta" nipponica, in cui il mio amato senso dell'armonia orientale ritrova quell'apparente semplicità che occorre una grande sapienza per ottenere.

Si serve la pasta nuda. Il condimento, il mori tsuyu, è a parte, dal profumo intensissimo, liquido tanto da essere un brodo, servito bollente tiepido o freddissimo a seconda della stagione. Gli aromi, yakumi, sono a scelta, elegantemente presentati a fianco della "salsa" perché ciascun commensale se la possa inventare al momento, decidendo quantità e combinazione dei profumi di completamento.

Un piatto contadino insieme conviviale ed altamente personale, che adoro per questa serie di anime raffinate, molto ben nascoste. Un piatto davvero fatto di nulla, integrato ad ogni stagione da aromi differenti. E che posso preparare con ingredienti che ho tutti già in casa. La mia dispensa assomiglia molto, in effetti, a quella di un contadino giapponese. Un altro modo, in fondo, per considerare questi pici una forma di cucina "locale"...


Teuchi pici -Pici fatti in casa con anima contadina giapponese

ingredienti per 4 persone:
per i pici
200 gr. di farina 00 (più un paio di cucchiai ev. per la spianatoia)
100 gr. di semola rimacinata di grano duro
2 cucchiai di olio d'oliva leggerissimo (*)
circa un bicchiere di acqua a temperatura ambiente
1 pizzico di sale
3 o 4 cucchiai di fioretto di mais o di semola macinata grossa per il riposo dei pici

(* non fosse stato un vincolo del regolamento avrei usato un goccio di olio di sesamo dentro 2 cucchiai di olio di arachidi...)

per il condimento
1 pezzo di alga kombu da 15 cm
2 cucchiai di katzuobushi (tonnetto secco in fiocchi) a scaglie spesse
100 ml. di salsa di soja
25 ml. di mirin (circa 2 cucchiai)
25 gr. di zucchero semolato (circa 2 cucchiai scarsi)

per le aromatizzazioni
1 piccolo limone con la scorza non trattata
1 pezzetto di radice di zenzero da 3 cm.
2 cipollotti sottilissimi
1 piccola carota
1 peperoncino fresco
1 cucchiaio di semi di sesamo nero
(ma anche: foglie fresche di shiso e di sansho, verdure e erbe di stagione, eccetera...)

Prima di tutto preparare il condimento, che è un composto di dashi (il brodo di base giapponese, onnipresente in cucina, sapore umami per eccellenza), ricavato da alghe e tonnetto secco, miscelato a salsa kaeshi, una salsa aromatica a base di soja che si usa per caratterizzare i condimenti dei vari tipi di pasta giapponese, nella salsa di accompagnamento dei tenpura e nei brodi di molte zuppe.

Le dosi sopra indicate di soja, mirin e zucchero danno grossomodo la porzione di kaeshi che serve in questa ricetta, ma conviene almeno quadruplicarle e tenersi un po' di kaeshi di scorta in frigo: si conserva anche per un anno ed è davvero un aroma fondamentale della cucina giapponese. In quel caso vanno anche allungati leggermente i tempi di cottura, le proporzioni in ogni caso sono sempre: 4 parti di soja in ml. per 1 parte di mirin in ml. e 1 di zucchero in gr.

Per la salsa kaeshi casalinga far sobbollire il mirin in un tegamino per circa 1 minuto rimestando delicatamente, fino a che non si sente più il profumo dell'alcool e il mirin assume quasi una consistenza sciropposa.

Unire lo zucchero e farlo sciogliere completamente, sempre a fiamma bassa e rimestando, fino a che lo zucchero forma una serie di piccolissime bollicine su tutta la superficie.

Unire la salsa di soja, aumentare leggermente il fuoco e, quando comincia a sobbollire sul perimetro, smettere di rimestare e lasciare che si formi su tutta la superficie uno strato uniforme di piccole bollicine, quindi spegnere immediatamente e lasciar raffreddare. Se se ne è preparata in abbondanza versare la parte che non si utilizza in un contenitore a chiusura ermetica e riporre in frigo.

Per il "vero" brodo dashi tradizionale in Giappone ovviamente ogni famiglia ha il suo personale metodo e gusto, un po' come dice Patty per il ragù toscano. Qui racconto semplicemente il mio sistema, senza pensare a verità assolute: mettere l'alga kombu in un tegame con 500 ml. di acqua fredda e portare molto gentilmente a bollore (se poi fosse acqua di Kyoto rasenteremmo la perfezione!). 

Quando l'acqua comincia appena a sobbollire e si formano bollicine sul perimetro dell'alga, levare quest'ultima dall'acqua e versarci i fiocchetti di katzuobushi, alzare leggermente la fiamma e lasciar bollire delicatamente per 8 minuti, quindi spegnere e lasciar riposare altri 8 minuti. (P.S.: l'alga konbu cotta è buonissima fatta julienne in insalata miscelata a pesce o verdure, aggiunta tritata al riso bianco e anche fritta in tenpura, quindi sarebbe un peccato buttarla via!)

Versare il brodo così ottenuto in un misuratore filtrandolo con un colino fine. Si dovrebbero ottenere circa 300 ml. o poco più di brodo dashi limpido e leggermente dorato. Se è di meno aggiungere a filo altra acqua calda attraverso il colino, fino ad ottenere la quantità voluta. Se non si usa subito il brodo dashi casalingo va conservato in frigo per non più di una giornata.

Per i pici setacciare insieme con cura un paio di volte le due farine con appena un pizzico di sale e disporle a fontana su una spianatoia.

Versare l'olio e poi a filo l'acqua, mescolandola alla farina con una forchetta e regolandosi in modo da ottenere un impasto da lavorare con le mani non troppo morbido. Qui ci sono voluti 150 ml. di acqua.

Lavorare con energia l'impasto per una decina di minuti senza stirarlo troppo, unendo farina o acqua se necessario, fino ad ottenere una palla liscia e compatta, non troppo dura e dalla superficie setosa. Lasciar riposare l'impasto per una mezz'ora a temperatura ambiente avvolto in pellicola.

 (impasto prima e dopo i 10 minuti di lavorazione)

Nel frattempo preparare le guarnizioni aromatiche: tagliare a julienne sottilissima la scorza di limone e il peperoncino (il mio era secco e l'ho solo sbriciolato); tagliare a piccoli bastoncini lo zenzero; tagliare a rondelle sottilissime i cipollotti; gratuggiare finissima la carota; stracciare a mano eventuali foglie aromatiche (d'estate ci vedrei benissimo basilico e anche mentuccia...). Conservare tutto in frigo ben coperto. Avrei voluto anche grattugiare un pezzetto di rapa nostrana ma, nonostante siano di stagione, qui non ne ho trovate...

Prendere circa un quinto dell'impasto dei pici, farne un cilindrotto e stenderlo con il mattarello in una sfoglia grossomodo quadrata; Patti consiglia uno spessore da 1 cm., io ho trovato più facile lavorare i pici partendo da uno spessore di circa 5 mm.


Tagliare l'impasto a strisce larghe quanto lo spessore della sfoglia 


e lavorare una striscia per volta, rotolandola sotto le mani sul piano in modo che si assottigli e si allunghi, fino ad ottenere uno spaghettone possibilmente regolare, grossomodo dello spessore di 3 mm. e lungo una trentina di cm.


Stendere i pici su un vassoio spolverato di fioretto di mais a mano a mano che vengono pronti e ripetere con un'altra porzione di impasto fino ad esaurimento. Meno aspettano e meglio è, per questo conviene preparare i condimenti in anticipo e lessare i pici appena sono tutti pronti, approfittando del loro tempo di cottura per assemblare il resto del piatto.


Mentre si scalda l'acqua per la cottura dei pici completare il mori tsuyu sciogliendo 6 cucchiai di salsa kaeshi (circa 90 ml.) in 300 ml. di dashi caldo (la proporzione ottimale è 3,3 parti di dashi per 1 di kaeshi) e disporre le guarnizioni yakumi con grazia nei piatti individuali.


Lessare i pici in acqua bollente poco salata, scolarli ancora al dente senza buttare la loro acqua e tuffarli 10 secondi in una ciotola di acqua fredda; scolarli e rimetterli 20 secondi nella loro acqua, quindi scolarli definitivamente. Sciacquarne la superficie in acqua fredda da il vantaggio che i pici non si appiccicano tra di loro anche se non sono conditi, il secondo passaggio in acqua bollente permette di servirli ancora caldi. In estate sia i pici che il mori tsuyu sono perfetti freddi, quindi non serve la seconda passata nell'acqua di cottura.

Arrotolare ogni porzione di pici, deporla nei piatti individuali accanto alle verdurine e spolverarla con il sesamo nero; suddividere il mori tsuyu caldo in quattro ciotoline dall'imboccatura larga o bicchieri termoresistenti ed appoggiare ogni ciotolina in uno dei piatti, quindi servire.


Ogni commensale mescolerà i condimenti preferiti alla salsa prima di tuffarvi con le bacchette un boccone di pici

e portarseli alla bocca ben aromatizzati...

E qui viene il vero tocco di classe nipponico: una volta terminato di mangiare i pici, secondo l'usanza contadina giapponese (che, proprio come la nostra, non spreca nulla!), si allunga il condimento rimasto nelle tazzine con dashi caldo un po' diluito o, nel caso fosse terminato, con acqua quasi bollente, e lo si beve a piccoli sorsi, a degna chiusura del pasto.


Questa ricetta yoshoku, ovvero giapponese con utilizzo di ingredienti occidentali, partecipa all'MTC di gennaio 2013 nella più ampia definizione di ciò che è "locale" e "tradizionale" e "semplice" e "contadino" ...


Per una versione completamente vegetariana del piatto si può preparare un dashi vegetale, sostituendo i fiocchi di tonnetto con 2 funghi shijtake (da cuocere con l'alga kombu), 1 cucchiaio di alghe wakame ed un goccio di salsa di soja.

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P.S. dell'ultimo momento: tutte queste riflessioni sul tema dell'appartenenza al territorio di una certa cultura alimentare mi hanno fatto notare quanto esistano, di contro, nelle nostre dispense prodotti che oramai sono assolutamente "sovraregionali" e "sovrastagionali".

Allora mi sono divertita a condire anche un piatto di pici così, al volo, partendo dal fatto che in cucina non si butta via nulla ma, soprattutto, aggiungendo quello che ognuno di noi ha certamente sottomano comunque e sempre, indipendentemente da dove si abiti e da che periodo dell'anno sia...


Pici delocalizzati del riciclo, con salsa marinara e merluzzo soffice/croccante
  per 4 persone:
4 porzioni di pici preparati come sopra
250 gr. di polpa di merluzzo fresco, al netto da pelle e lische (o anche di baccalà ammollato)
500 gr. di salsa di pomodoro conservata
1 spicchio di aglio
la scorza di 1/2 limone (ho usato la julienne avanzata dalla ricetta precedente, che per prudenza avevo preparato in abbondanza)
2 cucchiai di cipolla tritata (idem, ho usato le rondelline di cipollotti)
(volendo anche un cucchiaino di zenzero tritato, un cucchiaio di carota grattugiata e un pizzico di peperoncino, anche in questo caso tutto di recupero...)
1 albume (anche questo un avanzo, in verità!)
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
1 o 2 cucchiai di farina
pangrattato
1 mazzetto di prezzemolo
5 cucchiai di olio extravergine
sale
zucchero
pepe al mulinello

Scaldare l'aglio tritatissimo e 5 o 6 gambi di prezzemolo in un cucchiaio di olio e, prima che l'aglio dori, unire la salsa di pomodoro. Se è buona non si dovrebbe aggiungere altro, altrimenti va regolata con un pizzico di zucchero e/o di sale. Lasciar sobbollire una ventina di minuti, giusto perché il pomodoro prenda i profumi.

Nel frattempo tritare il merluzzo al coltello, metterlo in una ciotola ed unirvi l'albume, un cucchiaio di foglie di prezzemolo tritate, cipolla, scorza di limone ed eventuali altri aromi, nel mio caso solo lo zenzero; salare (se non si usa baccalà dissalato), pepare ed unire la farina.

Mescolare bene e poi aggiungere tanto pangrattato quanto basta a rendere in composto morbido ma abbastanza compatto da essere maneggiabile.

Formare delle piccole polpettine tonde (a me ne sono uscite una trentina) e passarle in un velo di pangrattato, quindi dorarle in due o tre cucchiai di olio caldo, scolandole su carta assorbente quando sono belle croccanti fuori ma dentro morbidissime.

Levare gli steli di prezzemolo dalla salsa marinara ed unirvi un cucchiaio di foglie tritate, versarvi i pici ben scolati e mescolare bene, quindi condire con un filo d'olio, distribuirvi sopra le polpettine e decorare con un altro spruzzo di prezzemolo e un pizzico di scorza di limone prima di portare in tavola.

(anche la foto è di rapina come il piatto, in cui hopur dimenticato la scorzetta decorativa... perdono!)

Le polpettine possono diventare anche un fingerfood da intingere nella salsa marinara leggermente più ristretta, se per caso i pici sparissero tutti mentre uno prepara il sugo...
  • rivoli affluenti: 
  • parlando delle tradizioni di Varese: Pietro Colombo, Ul mangià di nost vécc. Varese e Varesotto, Macchione Editore, 2008, ISBN 978-88-8340-181-7
  • parlando delle tradizioni giapponesi: Elisabeth Andoh, Washoku. Recipes from the Japanese home kitchen, Ten Speed Press, 2005, ISBN 13-978-1-58008-519-9
  •  parlando delle usanze contadine giapponesi: Nancy Singleton Hachisu, Japanese Farm Food, Andrews Mc Meels Publishing, ISBN 978-1-4494-1829-8

Commenti

  1. Una tradizione così diversa, ma allo stesso tempo così uguale... E tu hai saputo raccontarla davvero bene!!
    Siamo molto vicine io e te, solo che io sono nel lato piemontese, e tu lombardo! Io sono stata molto più banale di te e mi sono affidata ai prodotti del lago maggiore!

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  2. @bucci: altro che banale... e poi siamo vicine di lago, vicine di orario del post, vicine di tradizioni... che c'è di più?!

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  3. Premesso che mi ci vorrà mezz'ora per leggere il post come merita- e che stavolta me la prendo ( e a conferma delle buone intenzioni a. ho stampato il post; b. ho un'ora di attesa in aereoporto, stasera ;-), lascio qui un po' di considerazioni sparse, a partire dal fondo.
    1. "delocalizzazione", "sovraregionale" e "sovrastagionale" son parole che mi piacciono. Io insisto usl territorio, perchè è un effetto della vecchiaia. Più passano gli anni, più mi rannicchio su me stessa, sulle mie cose, sulle mie tradizioni. La spinta centrifuga dei 20 anni, la foga distruttrice dei 30, la ricostruzione dei 40 mi hanno portato a vedermi cone una prossima 50enne che coccola con amore quello che ha. Nello stesso tempo, guai a togliermi gli orizzonti. l'eterodossia. L'eresia, anche, ma che è sempre preferibile ad un km zero declinato in forme talebaniche e, come si dice oggi, gastrofighettare. viviam nel mondo e pure a 360 gradi, nell'unica dimensione in cui è possibile che un concetto così alto come la delocalizzazione si incontri con uno più pragmatico ed intriso di buon senso come quello del riciclo. Che, in questo senso, diventa anch'esso espressione di un recupero di una tradizione: perchè, come facevi notare al'inizio del tuo post, noi sam quelli della cucina povera. e quindi, del genio e dell'inventiva, sicuro- ma anche del "non si butta via niente", quella legge non scritta che ha retto nei secoli il bandolo della storia della gastronomia e ha fatto grand i Francesi, tanto per dire.
    Siccome ho pietà di te :-) rimando altre farneticazioni all'attenta lettura del post: prendilo come aperitivo, sovrastagionato :-)
    a dopo- e mille grazie, come sempre..

    RispondiElimina
  4. Mi è piaciuta moltissimo la prima ricetta, leggendo il tuo post mi sembrava proprio di essere catapultata a casa di un contadino nipponico! che meravigliosa cultura gastronomica che hai! il tuffo dei pici e sorseggiare gli ultimi sorsi è un rituale bellissimo e molto molto gustoso!
    anche io adoro la cucina orientale!
    per la seconda versione ti dico che se i ricicli ti vengono fuori così... e mi fermo, e corro a segnarmi la ricetta di quelle deliziose polpettine!
    bravissima!
    Francy

    RispondiElimina
  5. @ale: tu sei sovra-quasitutto... ma di certo non sovrea-stagionata (...altrimenti io che son più grande che fine faccio?!)
    Mi sa che se continuiamo così finiamo per scriverne tante, di "regole non scritte". Cosi poi alcune si possono infrangere con più tranquillità...

    @francy: e io adoro gli abbinamenti dolci del formaggio e mi sono pure molto imbaldanzita nell'essermi scoperta un'anima profondamente da mattone! Secondo me tu corri sul serio il rischio di vincere, questa volta.

    RispondiElimina
  6. tu non lo sai, ma ogni volta che parli della cultura giapponese, trasferisco tutto su un file di word.
    è la mia guida personale per quando andrò im giappone, se mai andrò.
    ma anche se questo non succedesse, rileggere queste pagine è come farci un giretto ogni volta.
    感謝
    Sabrina

    RispondiElimina
  7. @sabrina: per il Quinto Quarto sto pensando ad un'altra cosa, ma riderai quando, nell'elenco di ricette già pubblicate sul tema che a questo punto penso di aggiungere al post, troverai anche un paio di interpretazioni filo-nipponiche. Perché, come sappiamo bene, è assolutamente inutile porsi dei confini...

    RispondiElimina
  8. Ciao :-)
    I tuoi pici/udon sono per me stupendi e originali come la cultura tradizione giapponese che mi affascinano sempre di più! È veramente interessante leggere il tuo post dove traspare la tua passione per l'Oriente.comunque sono molto invitanti anche pici col merluzzo , un po' simili a come li ho fatti io
    Bravissima
    A presto ila

    RispondiElimina
  9. Carissima. La prima volta che ho mangiato gli udon è stato a Londra in un locale piccolissimo che serve solo udon con conseguente fila esterna interminabile, indice di qualità. Ci sono stata due volte, ogni volta che sono tornata a Londra. Lo sai cosa ho pensato quando mi hanno servito gli udon nel loro meraviglioso dashi (in cui ho chiesto un miso alle nocciole)? Questi sono pici. Si, perché la mia deformazione nel trovare somiglianze in qualsiasi cosa io assaggi o veda o sperimenti è irriducibile. Udon=pici. Non ti racconto storie ma sono riuscita a mangiarli con le bacchette e sorbire il brodo con il loro cucchiaio di ceramica. E da lì mi è sempre rimasto questo pensiero di un legame ancestrale tra alcuni tipi di cibi di popoli distanti anni luce tra loro. Il tuo post è favoloso e mi ha tenuta incollata allo schermo come sempre mi succede quando passo di qui (poco purtroppo e me ne dispiace). Grazie di cuore Acquaviva, anche per quell'ultima parte declinata all'italiana, che quasi stona con l'incantevole proposta rivolta ad est. Un forte abbraccio, Pat

    RispondiElimina
  10. Quando si arriva all'ultima parola di questo tuo bellissimo contributo, non si capisce bene se ci si ritrova più innamorati della tradizione contadina del varesotto oppure della dispensa del contadino giapponese.
    Ogni volta che mi è capitato di passare qui da te ho sentito tutta l'anima che metti in ciò che fai, e credimi, anche per chi non ti conosce bene, sembra di compiere, ogni volta, uno straordinario viaggio sul filo della storia e le onde dei mari.
    Ero passata soprattutto per ringraziarti anche qui, per il bellissimo pensiero che hai lasciato sul mio blog, e alla fine mi ritrovo a doverti ringraziare più di una volta, per l'ennesima, grande emozione che mi hai regalato.
    Complimenti di cuore, e ancora grazie infinite!

    RispondiElimina
  11. @ila: no no, il tuo piatto ha dentro tutta una storia ed una qualità che il mio merluzzetto di frigo di certo non raggiunge. Quanto alla passione per il Giappone... diciamo che in questo momento sono in una fase di picco!

    @patty: questa storia delle somiglianze istintive, come vedi, è davvero reciproca! Credo che alla base abbiamo entrambe una attenzione molto curiosa nei confondi del cibo e della sua storia, per questo ci risultano inevitabili comparazioni e sovrapposizioni.
    E la prossima volta dimentica il cucchiaio e sorbisci il brodo direttamente dalla tazza... da ancor più soddisfazione che mangiare le patatine con le mani!

    @raffaella: il mio legame con il presepe napoletano non è mai trasparito qui nel blog, prima di tutto perchè è davvero molto personale ed intimo, e poi perchè c'è chi concepisce il presepe come una mera esperienza natalizia, mentre io finirei per parlarne ogni giorno, per la completezza con cui rappresenta la storia e la vita di un popolo, della sua cultura e della sua fede. E in questo senso già ammorbo tutti più che abbastanza con Giappone e cose varie...
    Ma quando vuoi chiacchierare della Meraviglia, come dei sogni di Benino o della profondità del Pozzo... io sono qui a braccia aperte!

    RispondiElimina

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peperoni farciti alla croata: massaia batte bustina millemila a zero!

Riprendere a parlare di cucina non è facilissimo, soprattutto con il tono scanzonato che avevo in mente per questo post. Mi limiterò all'aspetto "documentaristico" ed umano, che l'umore magari sa beneficiare della concentrazione e della dolcezza richieste da una simile impostazione. Dopo una lunga serie di articoli e ricette a base di riso penso di cambiare direzione dedicandomi ai peperoni bianchi croati che di solito si cucinano ripieni di carne, per scoprire poi che nella farcia è presente riso crudo. Quando si dice il caso... I peperoni bianchi, babura paprika, in Croazia sono reperibili facilmente proprio in questa stagione. Ne ho in frigo tre e decido di prepararli, appunto, come  punjene paprike , ovvero farciti e cotti nel pomodoro, ricetta tipica che con piccole varianti è diffusa anche in altri Paesi limitrofi e che ogni famiglia, ovviamente, prepara secondo i propri criteri. La versione più semplice prevede di profumare carne trita di manzo o m...

riso Otello: un nero integral(ista)

Il primo giorno di autunno una ricetta con le ultime verdure estive, che sono ancora buone visto che sembra far più caldo ora che nei mesi trascorsi... Sollecitata da alcuni dubbi posti sulle modalità di cottura del riso integrale e sull'utilizzo di varietà di riso "esotiche", ho pensato di provare le risposte sul campo e chiarire soprattutto le idee a me stessa, la prima che ha tutto ancora da imparare. Così, per prendere due piccioni con una fava, ho scelto un riso sia nero che integrale. No, non famoso ed idolatrato riso Venere, fantastica varietà di nobile origine cinese che, grazie a opportune ibridazioni, ora è coltivato anche in Italia.  Ho pescato  invece una varietà tutta italiana: il riso Otello, che deriva anch'esso da varietà cinesi ma è di concezione e di coltivazione tutta nostrana. Chissà se il  nome è stato ispirato ispirato dal famoso personaggio shakespeariano, dalla sua pelle scura e dalla sua natura piuttosto integral ista... Si utilizz...

precisazione:

Per carattere tendo a tenermi in disparte e so che un comportamento simile in rete rema contro la normale volontà di visibilità di un blog che si rispetti: ho ricevuto spesso critiche per questo.
Mi hanno anche fatto notare che non sempre racconto le manifestazioni a cui sono invitata da aziende e che non polemizzo con chi ha utilizzato i miei testi o le mie foto senza citare il mio blog.
Ringrazio con passione chi mi rivolge queste critiche per affetto e chi mi sopporta lo stesso, nonostante non segua i loro consigli!