Degli altri interpreti conoscevo solo John Cazale per Quel pomeriggio di un giorno da cani e John Savage per Hair (film che casualmente avevo visto prima, anche se era uscito più tardi); invece mi aveva talmente inquietato la recitazione di Cristopher Walken da non riuscire più a slegarlo da quel personaggio ed apprezzarlo in seguito in altri ruoli. Però... caspita che anni! Sono stata fortunata a vivere la mia epoca: quello sì era cinema!
Il fatto che a 16 anni leggessi Sciascia e Hesse e frequentassi cinema e cineforum mi aveva aiutato da subito, per Il cacciatore, a cogliere l'atmosfera sospesa e disperata dietro le vicende di guerra, di amicizia e di amore che ne costruivano la trama e dietro l'evidente intendo di messaggio sociale.
E' quella atmosfera che negli anni mi ha portato a pensare sempre a Il cacciatore con profondità e malinconia. Costituisce uno stato d'animo che mi è rimasto addosso, che mi fa sempre commuovere ogni volta che, nelle situazioni più diverse, sento le prime tre note della Cavatina di Stanley Myers che fa da base alla sua colonna sonora.
L'altra sera ho rivisto Il cacciatore in tv: mi sono resa conto per la prima vota in vita mia che il film dura 3 ore e mezzo... ma solo perchè l'essere che mi vive a fianco ad un certo punto se ne è andato a dormire. Come sempre sono state ore senza peso: ho ritrovato i personaggi come vecchi amici, ho rivisto gli attori e vicende con occhi più consapevoli e sempre innamorati, ho pianto di nuovo ad ogni nota di sottofondo e sulle uova sbattute, nell'ultima scena dopo il funerale.
I buoni film, come i buoni libri, ti rivelano nuovi spunti ad ogni incontro. Questa volta ho riflettuto sul senso della memoria. Su quanto il mio affetto nei confronti di questa pellicola veli ogni possibile difetto tecnico che la razionalità e l'esperienza possono ora segnalare. Su quanto l'amarezza esistenziale, slegata oramai storicamente dalla guerra in Vietnam, continui a valere come sottotraccia per il film, certo, ma anche per la vita di tutti i giorni.
E così mi sono ritrovata a riconoscere nel presente, con le sue surreali chiusure, la stessa distanza che impedisce al personaggio di De Niro di sentire come propri la casa e gli affetti che ritrova al suo rientro, e che lo spinge a dormire la prima notte in un motel piuttosto che nel suo letto.
Sempre Il cacciatore questa volta mi ha mostrato come nemmeno qui ritornerà tutto come prima. Una sottile amarezza ci resterà sempre addosso, anche se le nostre mutilazioni non sono le stesse che affliggono nel film corpi e spiriti dei reduci di guerra, anche se, elaborati i lutti di ogni genere, troveremo certamente nuovi modi per riprendere a vivere in una sorta di normalità.
L'effetto grotta da una parte, cioè la paura di uscire dal riparo di casa, e la negazione di pericoli e regole dall'altra, sono oggi atteggiamenti estremi che vedo paralleli alle reazioni dei protagonisti del film dopo la guerra: il personaggio di Savage, ora sulla sedia a rotelle, preferisce chiudersi in una vita ottusa e routinaria nell'ospizio per veterani invece di ritornare al mondo, il personaggio di Walken sceglie di cavalcare il trauma, come se la paura non potesse colpirlo, come se ignorare il pericolo lo rendesse forte, come se, in fondo, non gli importasse davvero dell'esito reale della ripetuta sfida con la morte.
La reazione del personaggio di De Niro, invece, che sembra restare equilibrato e saggio ma tace le emozioni, dimostra quanto gli sia difficile tornare a considerare il quotidiano e l'eccezionale ritrovati dopo il ritorno a casa come affrontabili con la stessa pacata, convinta naturalezza di prima. Probabilmente per la maggior parte di noi sarà così adesso: torneremo magari a caccia con gli amici, ma chissà se vorremo o sapremo sparare al cervo, e se comunque colpirlo ci darà la stessa vecchia soddisfazione.
Non c'è reale rimedio, credo, a questa nuova amarezza, per cui si deve imparare a conviverci. Magari cantare mentre si sbattono le uova, con chi si ama nell'altra stanza, come nell'ultima scena del film, aiuta a sentirsi insieme, a capire quello che di buono è rimasto, a trovare lo zucchero e trasformare le uova in frittelle dolci.
Questa la ricetta delle frittelle di mele della mia mamma: come dicevo prima, con il tempo ho imparato a vederne i limiti e conosco alternative gastronomicamente più corrette ed interessanti, ma queste sono le sue, gioiose agli occhi di bambina, consolatorie oggi per tutto l'amore che, come la pastella, vela la dolcezza del frutto che va ad abbracciare.
Mi inteneriscono le parole con cui mi ero appuntata il procedimento, sempre intorno ai 16 anni, e che, aggiungendo solo il peso esatto degli ingredienti e un paio di note tra parentesi, riporto qui sotto pari pari: oggi la dolcezza dilaga. L'amarezza, quel pizzico di sale indispensabile in ogni vero dolce, non viene qui dalla saliera, come da ricetta: sono le due lacrime cadute nella pastella mentre sbatto le uova, ascoltando la Cavatina.
Però... che anni!
- rivoli affluenti:
- Stanley Meyers, Cavatina, 1970.
Che anni hai proprio ragione. Musica, cinema, teatro, un susseguirsi di produzioni tutte dolce-amare. Sono stata molto felice di aver vissuto infanzia e adolescenza negli anni 80-90 con tutto ciò che ne è conseguito. Un piacere leggerti, come sempre. Ilaria
RispondiEliminaQuanto mi piacciono questi post: cinema, cucina, letteratura e riflessioni profonde...ho salato il pc, leggendoti!
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