Non occorre essere Giapponesi per avere questa data marchiata a fuoco nel cuore: dieci anni fa il terremoto in Giappone. Io quel giorno con un'amica giapponese commentavo quanto, soprattutto in quel momento,
la cucina fosse una forma di preghiera. E pochi giorni dopo riflettevo con un'altra amica giapponese cosa significasse
vivere da lontano la tragedia del proprio Paese.
Innumerevoli sono stati i miei post in merito durante quell'anno, ma poi che è successo? Questo blog è quasi un amaro specchio della situazione generale: a un anno di distanza raccontavo quanto si provasse in tanti a collaborare in modo concreto, dopo due anni sottolineavo la necessità di rinnovare i legami di solidarietà con l'Occidente, dopo tre anni mi rendevo conto che in Italia ne cominciava a sbiadire il ricordo, tanto che a quattro anni era oramai solo nella memoria di pochi.
Poi con il 2016 in quel periodo tornavo a parlare delle tradizioni giapponesi ma senza citare direttamente il terremoto; nel 2017 saltavo l'appuntamento e qualche giorno dopo cucinavo giapponese senza pensarci; nel 2018 non citavo proprio il Giappone nel mese di marzo; nel 2019 elaboravo un lutto personale, scrivevo pochissimo ed ero distratta; infine lo scorso anno ammiravo il tentativo di far rinascere il turismo nel Tohoku, ma mi rendo conto rileggendomi di quanto la mia fosse una visione "da esterna".
Come è stato possibile? Non dico per l'Italia in generale, che poi di catastrofi ne ha anche subite di simili ed è stata capace di accantonare la memoria pure di quelle, ma me lo chiedo per me stessa, che adoro il Giappone, che ho condiviso la prolungata sofferenza di tanti amici e che frequento tutt'ora quasi quotidianamente (anche se non di presenza, purtroppo) tante persone giapponesi.
Per capire me stessa e forse anche alcuni dei Giapponesi che oggi non stanno nominando questa ricorrenza, serve forse
leggere questo articolo pubblicato da NHK, la televisione pubblica giapponese, in cui si racconta l'evoluzione dei luoghi costieri più colpiti nei dieci anni successivi al disastro, e serve
visitare i portali che la rete dedica, quest'anno come nei cinque precedenti, ad eventi, articoli, pareri, risultati a tema terremoto, pubblicati giorno per giorno.
Quello di quest'anno ha come titolo Dieci anni dopo il grande terremoto del Giappone orientale ma il suo sottotitolo, non tradotto nella versione inglese del sito, significa Quel giorno dopo 10 anni. Credo che la differenza principale nella percezione di cosa sia stato il terremoto per i Giapponesi rispetto alla visione che ne abbiamo noi da lontano stia tutta lì, nel non tradurre il sottotitolo, tanto chi non l'ha vissuto davvero non coglie la sfumatura.
Il resto del mondo guarda al terremoto del 2011, comprensibilmente in fondo, come ad una delle tante disgrazie lontane, che ha avuto risonanza per il conseguente disastro della centrale nucleare di Fukushima più che per le conseguenze locali, altrettanto tremende ma meno roboanti a livello globale. In merito sono esemplari le parole di
Laura Imai Messina:
Dieci anni fa in Giappone non si è aperta una crepa ma due. [...] Il primo è ciò che il terremoto e lo tsunami di dieci anni fa hanno provocato, spazzando via intere città della costa. [...] Il secondo è ciò che il disastro della centrale di Fukushima ha provocato - interrompendo l'incantesimo del tempo. La vita fino a quel momento, un ricordo, meglio dimenticare. Metti solo il necessario nella borsa e scappa, veloce. Potrai tornare. No, non potrai tornare mai più. [...]
In occidente se non si dice "FUKUSHIMA" nessuno capisce. Esattamente come serve dire "Hiroshima" per ricordare la bomba atomica. Io ho volutamente parlato dei primi, di quelli che hanno perso la vita o gli affetti (che sono buona parte della vita di una persona), in "Quel che affidiamo al vento". Ma non sono ingenua. So perfettamente che serve dire "Fukushima" perchè si capisca di dove, di quando si sta parlando. Io, semplicemente, ho operato una scelta. Di raccontare quelli che in occidente sono arrivati marginalmente. Proprio perchè, a differenza dei secondi, non avevano voce.Quel che noi capiamo poco del Giappone è che circa 20.000 morti e 30.000 senzatetto non hanno più voce da noi perchè non l'hanno cercata. Perché il senso del dolore giapponese sta nella ricostruzione giorno per giorno, nel tacere un sottotitolo, un "quel giorno è come oggi" che gli Occidentali non capirebbero, che restano molto più colpiti dal valore odierno delle radiazioni a Fukushima dopo dieci anni o dalla velocità di ricostruzione totale, nel frattempo, di case, strade, scuole e fabbriche.
Non c'è bisogno di raccontare di quella madre giapponese che da dieci anni scrive ogni settimana una lettera alla figlia dispersa, piuttosto leggiamo Fantasmi dello tsunami di Richard Lloyd Perry e del legame spirituale con le anime in pena dei dispersi: le sofferenze personali non si mostrano, in Giappone. Per questo è difficile trovare oggi delle celebrazioni ufficiali, qui in Italia, anche se il cuore di ogni Giapponese piange, ovunque risieda. Che abbia perso o meno affetti o casa o lavoro.
Io non riesco ad essere così tanto Giapponese e forse il mio tacere gli anniversari da un certo punto in poi è stata anche vigliacca volontà di dimenticare, ma so che ogni 11 marzo mi sono sempre svegliata con un groppo in gola, anche se poi non ne ho scritto nel blog e magari non ne ho neppure parlato nella vita vera.
Avevo in programma una ricetta di riso all'occidentale e sapori all'orientale per accompagnare queste riflessioni, volevo legare anche a tavola le due percezioni della vicenda. Però scrivere comporta uno stream of consciousness che scava nel profondo: volevo raccontare il dolore nel silenzio giapponese ma ho solo scoperto la mia inadeguatezza. Oggi non ce la faccio. Cucinerò domani, magari.
rivoli affluenti:Richard Lloyd Perry, "Fantasmi dello tsunami", apparso per la prima volta su The London Review of Books nel 2014, riprodotto in The Passanger. Giappone, Iperborea, 2018, ISBN 978-88-7091-548-8le foto qui vengono tutte dall'articolo di NHK e da articoli contenuti nel portale di quest'anno: nella prima il cartello dice "forza, ce la facciamo Hishinomaki", nella seconda si vede la stessa cittadina ricostruita, nella terza lanterne commemorative l'11 marzo nella città di Sendai, nella quarta la commemorazione a Miyako sui nuovi argini anti-tsunami.
Riflessioni che fanno riflettere...
RispondiEliminaogni giorno, tutti i giorni.
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